Qui c’è qualcuno che, senza clamori, vuol tentare la tripletta.
Già trionfatore delle edizioni 2015 e 2016 della Grande Boucle, Christopher Froome, la bionda gazzella keniana del team nerazzurro Sky, da ormai cinque giornate si trova ad essere padrone incontrastato anche di questo CIV Tour. Nel 2015, com’è ormai storia, assaggiò la vetta della classifica generale dopo la terza tappa e poi se la riprese, stabilmente, dalla settima in poi. Un anno fa, arpionò la maglia gialla dopo otto giornate, e non la mollò più fino alla fine. Quest’anno, invece, per balzare al comando della corsa transalpina gliene sono bastate cinque. A questo punto della competizione, dodici mesi fa, la massima graduatoria aveva già avuto tre leader, Cavendish, Sagan e Van Avermaet, e aveva da poco incoronato il quarto, cioè il futuro vincitore: più o meno quello che era successo ventiquattro mesi fa, con due leader di giornata, Rohan Dennis e Fabian Cancellara, e poi l'interregno di Tony Martin tra il Froome I e il Froome II.
Quest’anno, invece, quello della translatio imperii sembra, fino ad ora, un capitolo molto meno movimentato, se si pensa che proprio l’ascesa di Froome rappresenta il primo punto di svolta dalla prima tappa, al termine della quale, il 1° luglio, si insediò come leader, per rimanervi fino al 4, un compagno di squadra del keniano, il britannico Geraint Thomas. Il giorno successivo, dopo i 160 km da Vittel a La Planche des Belles Filles, Fabio Aru firmava la prima vittoria di tappa italiana, mentre il campione uscente tornava a rivestire la maglia gialla. Ora, la storia del Tour 2017, quando siamo giunti alla vigilia della prima giornata di riposo, è chiaramente ancora tutta da scrivere. Però non si può non registrare che in due tappe di fuoco (non solo meteorologicamente), quella, interminabile, del 7 luglio, 213 km da Troyes a Nuits-Saint-Georges, e quella odierna, la più breve Nantua-Chambery di 181 km, Froome ha saputo gestire la sua leadership in modo egregio, fedele al vecchio motto per cui chi è nella condizione di poter controllare non è obbligato a fare terra bruciata, o comunque non prima del momento decisivo.
Nella gestione di lungo periodo deve piuttosto saper arginare con energia e calma olimpica (o quasi) gli altrui impeti, quelli dell’arrembante Fabio Aru (Astana), l’altrui rabbia, quella di Richie Porte (BMC), rovinosamente precipitato a terra nella discesa finale, e l’altrui frustrazione, quella di un gigante come Contador (Trek-Segafredo), rallentato da qualche dio malevolo del pedale (e arrivato al traguardo con più di 5’ di ritardo). E con altrettanta calma olimpica deve anche saper far fronte agli incidenti di percorso, nel caso di oggi i problemi alla bici che l’hanno costretto a perdere alcuni secondi per cambiarla (ma gli è andata meglio dell’anno scorso, quando, si ricorderà, per analoghe noie dovette farsi un tratto da intrepido fidippide). Abbiamo parlato di calma olimpica, non certo di mancanza di reazione nervosa, mascolina: la gomitata decisa ma non cattiva che Froome ha rifilato ad Aru dopo che, risolti i problemi meccanici, ne aveva rintuzzato l’attacco da sciacallo, farà senz’altro discutere ma non è in contraddizione col discorso di sopra,
Perdere le staffe, nella sua situazione, avrebbe significato sbraitare contro l’ammiraglia e inveire all’indirizzo dei tifosi e degli avversari, non rimettersi subito in pista e, soprattutto, nel giusto peak state mentale per recuperare posizioni: tutto questo, naturalmente, sempre ammesso che la gomitata sia stata volontaria, e non provocata dalla spinta di un tifoso, come cavallerescamente ha rivelato lo stesso Aru. Peccato, però, che questo tifoso nelle immagini non si veda, quindi non si capisce la ragione della giustificazione di Aru, a meno che non si voglia fare i dietrologi e immaginare una sorta di tacito patto tra il sardo e il capolista: in fondo, nella fase conclusiva della tappa, c’era ormai aria di ticket (Froome sempre primo e Aru da terzo a secondo, con 18” di distacco), e, alla luce del vuoto che si stava creando alle loro spalle, a quel punto proprio non si vedeva il motivo perché Aru sprecasse energie in quelle devastazioni che potrà, eventualmente, fare con maggior comodità da martedì in poi.
Alla fine, al traguardo Aru è arrivato quinto, Froome terzo; la vittoria di tappa è andata invece, al fotofinish, a Rigoberto Uran, colombiano della Cannondale. Al fotofinish erano arrivate anche le vittorie di tappa dell’altro ieri e di ieri, quelle di Marcel Kittel (Quick-Step) a Nuis-Saint-Georges e di Lilian Calmejane (Direct Ėnergie) a Station des Rousses. Questi, invece, sono tutti gli altri vincitori di tappa a partire dalla prima giornata: Geraint Thomas nella crono di apertura a Düsseldorf; Marcel Kittel a Liegi; Peter Sagan (Bora Hansgrohe; vero esempio di anti-calma olimpica, squalificato poi dopo la quarta tappa per aver fatto cadere Cavendish in piena volata finale) a Longwy, Arnaud Démare (FDJ) a Vittel, Fabio Aru, come detto, a La Planche des Belles Filles, e poi ancora Kittel a Troyes.
Uno sguardo alle altre maglie che contano, oltre alla gialla. Al momento della sosta la maglia verde, quella della classifica a punti, è indossata da Kittel; quella a pois degli scalatori da Warren Barguil della Sunweb, oggi arrivato secondo alle spalle di Uran; quella bianca dei giovani è invece ornamento per il torso di Simon Yates, della Orica.