"Bene i risultati, meno l'affluenza". Continua per il Pd l’effetto-Renzi, effetto vincente: alle elezioni regionali “di riparazione” in Emilia-Romagna e in Calabria (in entrambi i contesti il ritorno alle urne era stato imposto dalle dimissioni dei due governatori), domenica 23 novembre i candidati democratici sono riusciti ad affermarsi. E non certo di misura: complice la crisi profonda del centro-destra, e il declino della parabola del Movimento 5 Stelle, appare evidente che allo stato attuale nel Paese il vento soffia a sinistra. Resiste la Lega Nord, ed è stato proprio il partito di Salvini l’ostacolo principale del Pd nella conquista della regione padana: il Carroccio, al momento, è tutto ciò che resta della destra, ma gli analisti sprecherebbero il loro tempo a vaticinare una Lega nel ruolo di guida di una coalizione conservatrice a livello nazionale; per vocazione, infatti, il partito delle camicie verdi è sì parte integrante della vicenda di destra, ma nello stesso tempo si è sempre mantenuto in una posizione di battitore libero, elemento integrato ma contemporaneamente alieno al movimento, con le sue scelte estremiste, provocatorie, dissociate. Tutt’altro discorso a livello locale, e la buona performance di Alan Fabbri, il candidato leghista di tutto il centrodestra (Ncd e Udc esclusi) lo dimostra. Nel lungo periodo, Salvini e i suoi potranno anche aspirare ad essere gli anti-Renzi, ma nell’immediato sembrano essere la risposta più incisiva a Grillo: complimenti a Salvini che ha saputo ridonare ai leghisti la passione per le battaglie sul territorio, la dimensione che è anche quella più congeniale all’azione politica di tipo grillino. Scenario diverso in Calabria, invece, dove non c’era la Lega ma solo una Forza Italia depressa dal malinconico tramonto dell’astro Scopelliti, e per giunta privata degli uomini migliori dell’ultima maggioranza regionale (quasi tutti risucchiati nel Nuovo centro-destra). Come si era già visto più volte in passato, una parte politica che aveva appena cominciato a vincere, ma non vi si era ancora abituata, ha affrontato la campagna elettorale muovendosi in ritardo, e con troppo poca o nessuna preparazione, e finendo così per bruciare l’unico candidato realmente spendibile nel dopo-Scopelliti, Wanda Ferro.
Andiamo ai numeri. Nella “rossa” Emilia-Romagna il democratico Stefano Bonaccini conquista la guida della regione arrivando poco sotto il 50%; un generoso Alan fabbri, invece, deve fermarsi al 30. Risultato plebiscitario è invece quello di Mario Oliverio in Calabria, quasi 61%, mentre la “povera” Wanda Ferro non va oltre il 24. Renzi e il Pd possono andare orgogliosi di questa duplice affermazione, ma la vittoria, in realtà , è tutta dei candidati presidenti, della loro forza intrinseca e del loro peso specifico. Sono stati loro, con la loro personalità politica, a convogliare gli entusiasmi residui all’interno del corpo elettorale e a far sì che l’astensionismo galoppante (soprattutto nella sempre partecipativa Emilia-Romagna il calo dell’affluenza è da shock, solo 37%, mai così bassa dal dopoguerra), non fosse anche immobilizzante per gli esiti della consultazione. Questo discorso appare particolarmente vero per Oliverio, dall’inizio del decennio il vero uomo forte della sinistra in Calabria, dopo la scomparsa di Mancini e il naufragio di Loiero: Oliverio, già parlamentare di lungo corso, alle vittorie plebiscitarie è abituato, avendo cannibalizzato i suoi avversari, Barile prima e Gentile poi, nelle due campagne per la presidenza della Provincia di Cosenza (2004 e 2009). Pur avendo la potenza di un satrapo (e pur sapendo di averla), continua a considerarsi un semplice servitore di partito, ma non è renziano: eppure persino Renzi è stato costretto ad inchinarsi a lui, Tissaferne d’Enotria, specie dopo che alle primarie del Pd questi aveva letteralmente divorato il candidato di Palazzo Chigi. Che cosa può una giovane generazione di rottamatori della politica di fronte ad una vecchia ma sempreverde guardia di caimani del potere?