Ore Nove, il Pd non deve morire.
Ma deve quantomeno riflettere. Intervenuto nello spazio della rassegna stampa mattutina de l’Unità tv che prende il nome dall’ora in cui va in onda, il segretario democratico, Matteo Renzi, due giorni dopo la cocente batosta delle amministrative ha ammesso due verità incontrovertibili: il risultato delle ultime consultazioni locali è stato nel complesso “negativo” e i ballottaggi “hanno visto la sconfitta dei candidati di centro-sinistra”. Senza se e senza ma.
Come un corpo malconcio che avverte sofferenze dappertutto, anche il partito di largo del Nazareno ha delle zone ben specifiche in cui accusa dolori particolarmente lancinanti: si tratta delle storiche roccheforti della sinistra, conquistate per la prima volta – o riconquistate dopo tanto tempo - da coalizioni o candidati azzurri. “Le sconfitte di Genova, L’Aquila e Pistoia fanno male.” Genova, L’Aquila, Pistoia: toponimi rossi, in alcuni casi rossissimi.
Historia loquitur: nel capoluogo ligure, che fu già Repubblica Serenissima (e non ci confondiamo con Venezia, anche Genova fu Serenissima), era da più di quarant’anni che alla massima carica comunale non sedeva un uomo di sinistra; precisamente dal ‘75. Per dieci anni, infatti, primo cittadino della città cara a San Giorgio fu il socialista Fulvio Cerofolini, a cui successe, per un solo quinquennio, il repubblicano Cesare Campart. Dopo di lui spazio a un’espressione del Psdi, Romano Merlo, e poi la lunga stagione del Pds, dei Ds e del Pd, iniziata nel ‘92-’93 con Claudio Burlando, futuro governatore regionale, e proseguita, dopo un’altra parentesi repubblicana (l’ultima), targata Alfio Lamanna, con Adriano Sansa, Giuseppe Pericu (due mandati), Marta Vincenzi e Marco Doria. Vocazione ancor più sinistrorsa a Pistoia, ove a spadroneggiare è stato il PCI e poi il PDS e quindi i DS e il PD ininterrottamente (e senza gli intermezzi repubblicani di Genova) dal 1946, con sindaci come Giuseppe Gentile, Corrado Gelli, Renzo Bardelli, Marcello Bucci, Lido Scarpetti e Renzo Berti.
Più “multicolore” la storia dell’Aquila, passata, dopo il fascismo, da amministrazioni comuniste ad amministrazioni democristiane, repubblicane, liberali e socialiste, fino ai Pds e a Forza Italia: ma da dieci anni il suo inossidabile nocchiero era il democratico Massimo Cialente, che molti scommettevano potesse lasciare un’eredità forte ad Americo Di Benedetto. Invece, alla fine, la sua immagine di coraggioso amministratore di sinistra alle prese, quasi a mani nude, con vere e proprie emergenze naturali e umanitarie non ha pagato, esattamente com’è successo a Lampedusa alla Nicolini (e, in questo caso, sulla sua stessa pelle). Fortuna che, a Lucca, lo spirito indomito di Castruccio Castracani ha vegliato sui colori tradizionali della politica cittadina e che Padova si è riscoperta, dopo due parentesi commissariali, città progressista. E meno male anche che a sud qualche punto di riferimento, come Lecce, non affonda.
Ma è poco, segretario Renzi? Troppo poco per consentire a dem e fratelli di archiviare la sconfitta con la giusta dose di filosofia? O per vedere qualche motivo di consolazione? Per l’ex premier, laggiù nell'intrepido west della politica italiana, c’è un male oscuro che impedisce di capitalizzare la lezione e che oscura l'orizzonte: la litigiosità disfacente e disfattista, purtroppo, non è sinonimo di morbus piddinus. Tutt'altro. “Le continue esasperanti polemiche nel centrosinistra alla fine non fanno altro che agevolare il fronte avversario, è stato sempre così. Ma se in tanti pensano che i problemi siano soltanto dentro il Pd, rischiamo di consegnare la vittoria a qualcun altro.”