Se andate a Sin City, evitate accuratamente lo strip club-casinò, se non volete trovarvi stretti tra una lap dancer tanto sexy quanto devastata nell’animo (Nancy Callahan-Jessica Alba) e il suo angelo custode, l’”amico dei buoni”, il rude giustiziere Marv (a cui dà il volto “tumefatto” un camaleontico Mickey Rourke); ma evitate anche le case popolari, dove lo stesso Marv, che vi è cresciuto, ha imparato ad azzerare ogni sentimento di perdono nei confronti dei “cattivi”; e cercate di stare al largo anche da Secret Oaks, il quartiere della gente “bene”, specie se siete foto-detective (Dwight McCarty-Josh Brolin) con alle spalle tresche passionali con le donne ricche e senz’anima che ne abitano le ville; per non parlare del centro storico: qui la raccomandazione è non avere sbirri alle calcagna, se non volete incorrere nelle ire di una banda di pistolere inesorabili e mozzafiato, capitanate da Gail (Rosario Dawson). Oppure evitate del tutto di entrare in città, come saggiamente consigliò il padre (putativo) a Johnny (Joseph Gordon-Lewitt), asso del poker smanioso di sbancare il tavolo del senatore Roark (Powers Boothe), l’uomo più potente di Sin City. Però, ed è la stessa Gail a dirlo, al di fuori di Sin City non c’è nulla; e allora, se proprio vi trovate in zona, fatevi pure un giro, e siate i benvenuti nel ventre della Grande Peccatrice di un tempo di là da venire ma che forse è già oggi. Una metropoli oscura, maledetta, dove ogni essere umano è potenzialmente letale, fondamentalmente infido, teatro di un grande noir con le atmosfere senza speranza e senza eroi del pulp e i colpi di scena imprevedibili del fantasy.
La vendetta: ecco la pulsione che lega i protagonisti delle storie di Sin City, la città che per i suoi abitanti equivale al mondo perché è, in fondo, il mondo. La ballerina Nancy vuole vendicarsi del senatore che ha causato il suicidio dell’unico uomo che abbia mai veramente amato, John Hartigan (Bruce Willis), che comunque continua a starle accanto in spirito; il senatore, dal canto suo, vuole completare la sua vendetta nel nome del figlio, che proprio Hartigan, a suo tempo, massacrò; Johnny, in realtà uno dei (tanti) figli non riconosciuti da Roark, torna a Sin City col preciso intento di umiliarlo lì dove è padrone incontrastato, il tavolo da poker. E poi c’è chi la vendetta la usa come pretesto per manipolare, sedurre, distruggere: è Ava Lord, la dea (Eva Green), memorabile figura di dark lady così simile, per certi versi, alla Barbara Stanwyck de La fiamma del peccato.
Non tutto ciò che fa parte della vicenda è visivamente rappresentato; molto, chiaramente, rimanda al capitolo precedente, quello del 2005 che vide Quentin Tarantino come coregista, insieme a Robert Rodriguez e Frank Miller, quest’ultimo anche autore della graphic novel alla base del film (per il secondo Sin City, invece, Miller si è assunto in esclusiva la responsabilità della regia). Al pari della prima trasposizione filmica, anche questa si sviluppa come una serie di episodi, quattro, che si intersecano tra di loro. Una donna per cui uccidere, quello che costituisce parte integrante del titolo del film in locandina (come se, in un certo senso, fosse la storia principale), è naturalmente l’episodio con la perfida Ava: è lei che Marv, parlando con Dwight, ex amante della donna, definisce, appunto, “donna per cui si può uccidere”, dopo averne visto per la prima volta la tenebrosa magnificenza. Naturalmente, mentre gli sfugge quest’osservazione, Marv non dimentica che a Sin City è ancora più facile trovare “donne per cui si può morire”, e spesso e volentieri per loro stessa mano.