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Loro 1, il ritorno di Sorrentino

Nelle sale la prima parte del film su Berlusconi

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Un po’ Scorsese e un po’  Sienkiewicz.

La prima parte di Loro 1, quella che fa da preludio  all’avvento di Silvio Berlusconi, è in realtà un compendio di romanzo di formazione nella vicenda di Sergio Morra, personaggio ispirato a Gianpaolo Tarantini e interpretato in modo convincente da Riccardo Scamarcio. Morra, esattamente come il Lupo di Wall Street Benfort-Di Caprio, sfonda nel suo mondo di torbidi  e spettacolari guadagni studiando da opportunista in mezzo ad una selva di opportunisti, e gratificandosi ad ogni passo con sempre più massicce dosi di sesso e stupefacenti (dalla cocaina alle anfetamine). Morra vorrebbe essere Berlusconi, come tutti i personaggi maschili del film, in fondo, vorrebbero essere. In primis il ministro Santino Recchia (Fabrizio Bentivoglio), che trama addirittura nell’ombra per sostituirlo.

Berlusconi, invece, probabilmente darebbe tutto quello che ha (anche se “tutto non è abbastanza”, recita la frase simbolo del film) per avere ancora quella sradicata giovinezza senza obblighi di Tarantini (e nonostante lui si senta un’immensa giovinezza dentro). Ma, se tutti spasimano per essere come Berlusconi (che nel film è Toni Servillo, l’attore-talismano del regista Paolo Sorrentino) o quantomeno per poter accedere a lui (questo vale per quasi tutte le presenze femminili del film), c’è chi è già vicinissimo a Berlusconi da una vita e non ha altro desiderio che allontanarsi da lui per sempre.

Ci sembra di trovarci di fronte a un topos che spalanca la porta  alla natura universale della tirannide. In ogni tempo un despota è idolatrato e ammirato da lontano, ma diventa riprovevole qualora si allunghi la mano dentro la sua vera essenza, quando si trovi la chiave per decifrarne l’anima. Perché questo è il Berlusconi di Sorrentino, un tiranno brioso e decadente, teatrale e (intimamente) crudele,  indolente e carismatico. Vicinissimo al Nerone di Quo vadis? o di Anno Domini  e senz’altro lontano chilometri da quel lugubre sacerdote del potere che era l’Andreotti del Divo (altra declinazione servilliana),  seppur non privo, in fondo, della sua stessa malinconia. Ne ha ben donde: relegato all’opposizione, si muove come un leone in gabbia che ringhia il suo diritto di tornare al potere. Ci ricorda un po’ l’Enobarbo che, per recuperare consenso, va alla ricerca affannosa di un colpevole di comodo su cui scaricare le responsabilità dell’incendio di Roma. Un leone che insofferente sbadiglia, certo, ma non dorme: e intanto si dedica alla repressione dell’ennesima congiura dei Pisoni.

Altre catene sono quelle che gli impone la moglie, Veronica (sì, è proprio lei l’intima di Berlusconi anti-berlusconiana), che soffre per la sua infedeltà e cercherebbe di redimerlo con piccole punizioni occasionali (per esempio la gita in barca senza telefonino). Ma sa già che la sua partita è persa in partenza, e quindi medita di piantarlo leggendo Saramago, discettando di filosofia e rimproverando il coniuge di non aver mai fatto programmi culturali sulle sue televisioni (al netto di Mike Bongiorno).  In fondo gli sforzi di Veronica per far tornare a sé il suo Berlusconi non fanno che incentivare la voglia di lui di trovare una valvola di sfogo,  e quindi non hanno altro effetto che potenziarne l’infedeltà.   Veronica sa di non poter essere Ottavia, ma piuttosto Poppea, e cerca di prevenire il momento in cui il tiranno la sbatterà fuori di casa con un calcio al ventre. Forse quel momento è già arrivato, magari lei è già stata scaraventata fuori e non se ne accorge, o non vuole accettarlo.

Dopotutto prendere a calci non è da Berlusconi: meglio dare il benservito a suon di regali preziosi o ricercati. O con una prigionia di lusso in un luogo fiabesco, della quale il tappeto elastico recintato dei nipoti di Veronica e del Despota, in vacanza dai nonni in Sardegna, è una chiara metafora. E, per meglio chiarire il concetto, a pochi passi da quella tenera gabbietta c'è anche un modellino in 3d di castello incantato, alto come un gazebo.

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