In questo delicato periodo storico caratterizzato da un'emergenza Coronavirus e da una pandemia che ha messo sotto scacco il mondo intero, assistiamo sui social network – e in particolare su Facebook – a un dilagare di post scritti da utenti che s’improvvisano virologi, dopo aver vestito a seconda della contingenza i panni di architetti strutturali, di sismologi, di criminologi, di costituzionalisti e così via. In quella roccaforte della demagogia che è diventata la creazione di Mark Zuckerberg (in Italia dal 2008), luogo ove – in una sorta di distorsione del sogno americano – tutti possono essere chiunque, si finisce per essere volenti o nolenti “produttori di testi vettori d’informazioni”. Caratteristica che un tempo era appannaggio del giornalismo. Informare ne è infatti sua funzione principale. Ma cosa s'intende quando si parla di giornalismo?
Per l’enciclopedia Treccani è “l’insieme delle attività e delle tecniche relative alla compilazione, redazione, pubblicazione e diffusione di notizie tramite giornali quotidiani o periodici”. Questa definizione è tuttavia riduttiva: i giornalisti trattano notizie tanto quanto informazioni, analisi e idee, che esprimono generalmente su giornali, radio e TV. Con la nascita del Web (1991) è diventata addirittura obsoleta: ignora infatti le testate giornalistiche online, trascurando che ogni quotidiano “storico” ha ormai la sua versione su web talvolta più seguita del corrispettivo su carta, tanto che al conseguente calo di lettori che questa trasformazione ha comportato alcuni giornali sono ricorsi alla diversificazione della loro attività. Per fare un esempio concreto, Il Fatto Quotidiano, a otto anni dalla sua fondazione (2009) ha lanciato Loft, una piattaforma televisiva digitale di approfondimento, dopo aver aperto una frequentata piattaforma blog.
Con l’avvento di Facebook - che ha tutto l’aspetto di essere la più efferata operazione di mistificazione e schiavitù intellettuale implementata su scala mondiale – la professione di giornalista è diventata addirittura oggetto di vituperio. E la costante operazione di alterazione di concetti come, ad esempio, quello di “amicizia” è sfociata nel crearne uno nuovo: fake-news. Se prima infatti le notizie potevano essere vere o false (diffuse cioè nell’intento di confutare quelle vere) con Facebook (e i social network in generale) hanno iniziato a diffondersi anche quelle inesistenti, create al solo scopo di imbonire, grazie anche alla smisurata quantità di “informazioni” riversate senza posa sugli iscritti, tale da fiaccare mente e sensi anche dei più allenati, fino ad annullarne la capacità critica. E se non si è sempre arrivati a tanto, Facebook ha comunque favorito la produzione e diffusione di contenuti multimediali “homemade” allo scopo di raccogliere consensi coatti - sulla scia dell’egocentrismo e del malumore generale - ignorando che l’informazione vera rifugge la piaggeria, suscitando spesso dissenso. Sta di fatto che se in principio Facebook sembrava ampliare l’offerta dell’informazione – sia pure in forma di controinformazione - la costante manipolazione delle notizie l’ha in ultima analisi soverchiata dando per lo più luogo a disinformazione. Ma solo in democrazia ciò è possibile perché la libertà d’espressione – a prescindere dal fine - ha un valore fondamentale.
Per concludere, è difficile trovare un migliore antidoto a questo fenomeno se non un giornalismo che abbia quale suo unico scopo quello d'informare rispettando l’intelligenza di chi ne fruisce, qualunque ne siano le forme e i canali espressivi. Se infatti per gli autorevoli Bill Kovach e Tom Rosenstiel scopo del giornalismo è addirittura quello di fornire ai cittadini informazioni in funzione del loro essere liberi e autogovernarsi (The elements of Journalism: what newspeople should know and the public should expect, 2001), già basterebbe partire dall’informare favorendo la comprensione e l’analisi critica, in una pluralità di voci e opinioni.