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Massimo Latini: l’operatore cine-televisivo? Prima di tutto è un osservatore

Nel mio mestiere fondamentale resta il confronto

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Specchio segreto, occhio nascosto, filtro magico. Visto attraverso una telecamera o una cinecamera o una fotocamera, il mondo è più bello di come lo vediamo? Di sicuro a volte (spesso) una buona ripresa dice più cose di quanto la realtà da sola non riesca a dire. Non pensate, però, che il video maker o l’operatore di ripresa sia una specie di bird watcher: magari potrebbe anche esserlo per hobby, ma non si limita al rispetto contemplativo nei confronti della realtà. Anche se non si direbbe (magari questo è più evidente parlando di cinema), lo sguardo dell’operatore, al servizio o meno di un progetto audiovisivo specifico, è pur sempre una narrazione, e risponde a dei precisi criteri di racconto. E anche se non si direbbe, l’operatore è tutt’altro che un solitario (o un romantico). Pensateci: in fondo nel documentario, e nel cinema,  il potere è per il 60% nelle mani di chi ha in mano la macchina da presa, con le sue scelte a proposito di inquadrature, dettagli cromatici, posizionamenti e movimenti, sottolineature visive. Il montatore potrà anche metterci una pezza o più di una, ma alla fine, ciò che il pubblico vedrà, fosse anche solo un minuto, sarà quello che lo sguardo del filmante ha rappresentato. Ogni regista vorrebbe scippare al suo operatore il controllo della cinepresa: in ogni set il vero confronto, messi a tacere gli sceneggiatori (o trovato con essi un compromesso), è tra queste due figure. L’operatore è sempre il primo consigliere del regista o, nei documentari, dell’autore-regista; ma è anche uno di quei consiglieri che, per così dire, è costantemente sul punto di combinarti il golpe.  Certamente c’è molta mutua intesa tra l’uno e l’altro, e davvero non si saprebbe dire se sia l’operatore ad apprendere la pignoleria dal regista o viceversa. Pignolo, perfezionista ad oltranza, insoddisfatto fino allo sfinimento è senz’altro Massimo Latini: almeno quando è sul set o in cattedra - insegna tecniche di ripresa presso la scuola di cinema “Sentieri selvaggi” di Roma - e deve mettere l’elmetto. Sotto di esso, però, si nasconde un attaccamento al lavoro che è innanzitutto allegria, giovialità, e perché no, convivialità. Il fatto è che dalla scuola di Giovanni Minoli non si può non uscire come minimo col grado di sergente (di ferro): e, almeno sul piano  “istituzionale”, lui ci tiene ad incarnare fino in fondo questo ruolo. Il suo motto è “girare con metodo, e selezionare il girato con scrupolo”: se non vi fossero ancora chiare le idee sul nostro personaggio, vi diciamo  che è l’occhio di Mixer (e de La storia siamo noi) dietro la telecamera di Mixer (e de La storia siamo noi). Con il suo aiuto cercheremo di delineare qualche tratto in più del volto di chi sta al di qua della macchina da presa.   

Massimo, fare un documentario: il punto di vista del tecnico è diverso da quello dell’autore (ammesso che non siano la stessa persona)?

Nel corso degli anni mi è capitato molto spesso di coprire un ruolo tecnico (operatore di ripresa o direttore della fotografia o entrambi).
Un buon operatore ha il compito di “interpretare” le idee dell’autore (o del regista) e trasformarle in linguaggio visivo. Io penso che il ruolo dell’autore/regista e quello dell’operatore siano assolutamente complementari:  il massimo della soddisfazione si ha proprio quando si riesce a lavorare con un autore che ha  idee molto forti e chiare, ma ha bisogno di aiuto per tradurle in immagini, e così ti lascia libertà creativa. Il documentario, così come il cinema nel suo insieme, è un lavoro di squadra e avere più punti di vista aiuta senza dubbio a creare un lavoro più ricco e più complesso (questo, ovviamente, e a condizione che ognuno conosca davvero il proprio ruolo e le proprie competenze).
Spesso l’autore si concentra (giustamente) sulla parte letteraria del film, lo script, le domande, le risposte, i commenti fuori campo, insomma le parole, che sono l’ossatura del racconto.
Altrettanto spesso un autore non sa o non riesce a tradurre la scaletta scritta in immagini precise e dettagliate, inquadrature, movimenti, luci.
A volte non sa farlo perché non è una sua competenza specifica, altre volte non può farlo perché, specie nel documentario, molto di quanto immaginato e scritto in fase di preparazione deve poi fare i conti con la realtà che cambia in continuazione, e che ci regala eventi spesso imprevedibili.
Così diventa fondamentale l’operatore, che, specie in questi casi, assume un ruolo sempre più autoriale. Per farlo però deve essere in grado di interpretare quello che accade e filmarlo nel modo più funzionale possibile rispetto all’obiettivo prefissato. E’ quindi chiaro che l’operatore di un documentario deve essere coinvolto nel progetto già in fase progettuale e tanto più sarò “dentro” la storia tanto migliore sarà il risultato del suo operato.
Per la stessa ragione, un autore che svolge anche il ruolo di operatore  avrà il grande vantaggio di essere certamente immerso nel progetto,  pur non potendo beneficiare di quel confronto che è spesso la grande ricchezza di questi prodotti.
Tutte le volte che ho fatto l’operatore di un mio progetto, ho percepito che comunque alla fine qualcosa mi era mancato. Anche nel migliore dei casi, resta il dubbio di non essere stato abbastanza oggettivo, onesto e sensibile. 
Se lavori da solo manca il confronto, merce ancora preziosa in questo mestiere.

Oltre alle luci e alle manipolazioni luminose, allo sfondo e naturalmente alle potenzialità della macchina da presa, c’è un ingrediente x per la ripresa perfetta?

Il vero  “segreto” per ottenere delle belle e significative immagini è osservare!
Prima di iniziare una qualsiasi ripresa, dobbiamo guardare cosa abbiamo davanti e valutare angolazione, distanza, luce, in funzione di quello che vogliamo ottenere e senza perdere di vista il nostro reale obiettivo.
Altro elemento fondamentale è l’intelligenza e la sensibilità con cui ci si pone. Può sembrare una banalità ma credo sia profondamente vero.
Ogni soggetto che dobbiamo inquadrare merita di essere “ascoltato”. Se sappiamo guardare sarà lui stesso a svelarci il “segreto”, a dirci qual è il migliore punto di vista, la luce perfetta, la giusta distanza.

La palestra di Giovanni Minoli: quali sono i principi che ti porti dietro (e dentro) da quell’esperienza?

Lavorare con un professionista come Minoli è stata una grandissima fortuna. Ha sempre costruito e difeso la propria squadra, come tanti altri grandi della nostra televisione (Santoro, Biagi, Zavoli…).
Devo a Minoli molta della mia formazione, ma se dovessi ringraziarlo per una cosa in particolare, allora direi: la possibilità di sperimentare. Con lui, in tutte le sue trasmissioni, pur avendo delle linee guida molto forti, abbiamo sempre avuto un grande margine di libertà creativa e spesso questa libertà ha portato all’ideazione di nuovi format e nuovi programmi.
Non a caso, fin dai tempi di Mixer sono nati svariati programmi satellite che a loro volta sono diventati talmente consolidati da far dimenticare le proprie origini. (un esempio tra tutti è Report di Milena Gabbanelli). Non a caso alla fine degli anni ‘90 Minoli con il suo gruppo diedero vita ad una struttura,  “Format”, che era un vero e proprio laboratorio creativo all’interno di una Rai già allora ingessata e pachidermica.  Attraverso questa struttura  Minoli ci spingeva a trovare nuove strade narrative ed investiva per farlo.

La macchina a mano fa più reporter, la macchina a cavalletto fa più artista: a quale di queste due immagini è legata maggiormente l’idea che hai tu di operatore?

Non credo affatto che la macchina a mano faccia necessariamente reporter, né tantomeno che il cavalletto ci renda degli artisti. Sia la macchina a mano che il cavalletto sono solo strumenti che devono essere usati nei giusti contesti (Lars Von Trier è solo uno dei tanti artisti che usa esclusivamente la macchina a mano). Ci sono situazioni che richiedono immagini ferme e stabili ed altre che ci spingono a muoverci;. In altre ancora è necessario fare entrambe le scelte. Il linguaggio cinematografico (e televisivo) è uno dei più complessi e potenti che abbiamo a disposizione. La conoscenza e l’uso di tutti gli strumenti, nella loro modalità più corretta, ci permette di “scrivere” delle belle pagine di racconto. Così come uno scrittore può utilizzare un linguaggio ricercato e formale e nello stesso libro uno slang o un dialetto, così la macchina a mano, il cavalletto, un movimento di carrello, lo steady-cam, una gru, le riprese aeree, l’uso del grandangolo o di un teleobiettivo, possono tutti aiutarci a raccontare una storia.
Se ad esempio filmiamo una danza tribale, possiamo starne fuori e usare il cavalletto (magari con un teleobiettivo), ma possiamo anche scegliere di andare in mezzo ai danzatori conla macchina a mano (magari con un bel grandangolo). Sono due narrazioni diverse e nulla ci vieta di usarle entrambe, anzi probabilmente solo usandole insieme riusciremo a raccontare veramente cosa è accaduto davanti ai nostri occhi e a trasmettere allo spettatore non solo un resoconto da cronista ma anche un’emozione (magari la stessa che abbiamo provato noi stando lì).

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