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Gianotti: l’autore televisivo… non nasce in televisione!

Il linguaggio televisivo evolve sulla base dei presupposti della narrazione

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Scrittori si nasce? No si diventa, magari dopo aver vissuto quel tanto che basta per avere la capacità e l’esperienza di trasferire sulla carta quello che si è capito della vita, depurato dalle passioni del momento e maturato al punto da renderlo visione del mondo o messaggio morale (o entrambe le cose). Lo stesso discorso vale quasi certamente per coloro che scrivono per la tv. Diventare autori televisivi è un punto a cui si arriva attraverso vie asimmetriche, irregolari, indirette. Molto spesso casuali. Si fa presto a dire autore televisivo: è un trait d’union tra il mondo dello spettacolo dell’era orale, per così dire (cioè dove non c’erano i testi), e quello dell’era della scrittura. È un più-che-giornalista chiamato  conciliare i tempi dello spettacolo con i contenuti dell’informazione (o della divulgazione). È  un più-che-tecnico, che deve stare nello stesso tempo dietro le telecamere e dietro le quinte. Ma, innanzitutto, è bene ricordarlo, è un punto di arrivo: gli aspiranti giovani autori sono avvertiti. Chi vuole lavorare in televisione deve sapere prima di tutto come va il mondo (e lo show business) fuori dalla televisione, e approfondirne l’osservazione con acutezza e curiosità. Non si può soltanto recepire passivamente i contenuti della “scatola magica”: prima di ogni altra cosa, la tv è nient’altro che la sintesi della realtà (non necessariamente lo specchio). Nel peggiore dei casi la semplificazione: purché non sia falsa e inattendibile. In una parola, la tv nasce fuori dalla tv. E l’autore televisivo, anche.
Maurizio Gianotti non smentisce questa regola: neanche lui è un autore tv “per nascita”. Tra i padri del legal show (“Forum”, e i suoi spin-off serali, "Forum di sera" e poi “Il verdetto”), impegnato a tutt’oggi nel tentativo di far evolvere il genere talk nella sua declinazione più culturale (le rubriche per “Uno Mattina”, accanto a programmi “di nicchia” come “Un paese fondato sulle nonne”), Gianotti, oltre che scrivere per la tv, scrive molto sulla tv (di cui ha fatto pure una materia di insegnamento) e, soprattutto, riflette attentamente su di essa. La sua ultima produzione saggistica ne fa a buon diritto uno storico e un teorico del piccolo schermo. Conversare con lui significa gettare uno sguardo rapido, ma illuminante, sul passato, il presente e il futuro della tv; e sulle origini della scrittura televisiva, la sua natura e la sua mission.

Dott. Gianotti, che significa scrivere un programma per la tv? E che cos'è la narrazione televisiva?

Al principio scrivere un programma televisivo, quando ancora non si chiamava format, era un'attività fortemente imparentata con il teatro, l'avanspettacolo, il cabaret, il café chantant, il cinema e anche la radio. E questo perché non esistevano né una tradizione né un repertorio televisivo, ma bisognava inventarli ex novo. Non a caso i primi programmi televisivi sono stati trasmissioni in diretta di spettacoli teatrali. I primi prodotti più specificamente televisivi sono stati i "telequiz", "Lascia o raddoppia?" in testa... che è anche il primo format in assoluto (o un "format" ante litteram). Poi la tv ha scoperto se stessa e allora  drammaturghi, scrittori, registi teatrali sono stati sostituiti da autori e registi televisivi: è in quel momento che la tv ha inventato se stessa. Esiste uno specifico televisivo che poco ha a che fare con quello cinematografico, teatrale e radiofonico. Scrivere un programma per la tv significa sintonizzarsi sulle onde del target di riferimento, riuscendo a prevedere cosa gradisce e cosa rifiuta. Un lavoro di sottrazione più che di addizione, in verità. È necessario saper “giocare al ribasso”, compiere un’operazione di democrazia culturale: riuscire a “mettere da parte” la propria cultura e il proprio senso estetico per farsi a misura del proprio pubblico. Un valido autore di programmi non è certo come il suo pubblico, eppure deve riuscire a immedesimarsi in esso. Al contrario, l'autore che è esattamente come il suo spettatore non è un bravo autore, o non è un autore.

Che cos'è la narrazione televisiva?     

Parliamo di qualcosa che è infinitamente meno scritto della narrazione cinematografica e teatrale, ma anche di quella della fiction televisiva: il racconto avviene attraverso la scaletta e il linguaggio è, tornando al punto di prima, quello della gente comune. O il più vicino possibile ad esso.   


Lei è molto aperto all'evoluzione della tv sul web: si è anche occupato dei rapporti tra questi due mondi e dei loro incroci. Ma, puramente per gioco, mettiamo che il web non esista: su quali elementi classici dovrebbe puntare, a suo parere, la televisione per avere futuro?

Il web è uno strumento di diffusione e distribuzione, non è un linguaggio ma un veicolo di linguaggi. E non influisce dal punto di vista tecnico-stilistico sull'evoluzione del linguaggio televisivo: esso, infatti, cambia  in base agli stimoli che la realtà offre alla narrazione. Per fare un esempio, il successo del palinsesto di Real Time non dipende certo dal web. Neanche la più grande rivoluzione degli ultimi anni, la nascita del reality, nasce dal web ma, appunto, da un diverso modo di concepire la narrazione. Poi è chiaro che tra questi stimoli si possono e si devono includere anche i nuovi modelli di comunicazione proposti dal web. 


Il successo di un programma per un autore televisivo sta solo nell'audience?

Gianni Boncompagni, grande maestro di cinismo ma anche profondissimo conoscitore della tv, suole dire che i programmi televisivi si dividono in due categorie: quelli brutti fatti in fretta e quelli brutti fatti lentamente. Questo se parliamo di ciò che può aspirare ad avere un successo di pubblico e quindi ascolti alti. L'autore che non bada agli ascolti deve necessariamente lavorare in un canale marginale, dove l'ascolto non viene rilevato (ce ne sono, per esempio tra quelli per gli italiani all'estero). Altrimenti può provare per un breve attimo la soddisfazione di avere realizzato qualcosa di veramente bello. ma se il verdetto dell'Auditel è negativo, l'autore con il suo bagaglio di autostima è morto.  


C'è qualche segnale che, sin dall'origine, indica la forza o la debolezza di un programma?

Si: la carica trasgressiva di kitsch e di trash. Oppure un'idea forte, quando c’è (ma è merce rara).

L'idea per un programma televisivo può anche non provenire da un autore televisivo, ma solo un autore sa strutturarla. E' d'accordo su quest'affermazione?

Su 60 milioni di italiani, ci sono almeno 59.999.999 persone convinte di avere avuto l'idea di un programma di successo. In qualche caso può anche essere vero: una persona qualsiasi può avere un'intuizione ma poi a trasformarla in programma tv ci vuole un autore esperto. Vale anche per la fiction: quante volte vengono comprati dei soggetti (la formula è: da un'idea di), ma a sceneggiarli e realizzarli sono degli specialisti. La fiction "Gomorra" non l'ha mica fatta Saviano...


Prima di fare l'autore televisivo, lei era un musicista. Che continuità c'è tra il comporre musica e il suonare musica e il comporre per la televisione? La buona scrittura per la televisione ha i tempi e i ritmi dello spartito?

Il linguaggio musicale dà un certo ordine. La partitura è come la scaletta, anche se è molto più rigida. L'aspetto della musica che ho portato in tv è l'improvvisazione. Arbore e Boncompagni, esperti e amanti della musica, lo hanno fatto molto prima di me.
 

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