Pena capitale.
Questa è la sentenza pronunciata sabato 16 maggio da un tribunale del Cairo nei confronti dell’ex presidente egiziano Mohamed Morsi ed altri centocinque imputati, tutti appartenenti alla grande famiglia dei Fratelli Musulmani come lo stesso Morsi: in mezzo a tale moltitudine di dannati gli altri nomi di maggior spicco sono quelli di Khairat al Shater, numero due dell’organizzazione, e di Mohammed el Beltagi, segretario generale della stessa.
Si chiude così il secondo capitolo di un vero e proprio maxiprocesso contro la Fratellanza Musulmana, multinazionale dell’islamismo radicale ma non necessariamente legato al terrorismo (anche se, spesse volte, ne comprende in sé anche le forme più fondamentaliste); un maxiprocesso, che nei mesi scorsi aveva già portato alla condanna a morte di Mohammed Badie, il volto internazionale di essa, e di tredici suoi colleghi dirigenti di primo piano, a cui se ne aggiungevano moltissimi altri di secondo e terzo piano, così da arrivare ad un totale di seicentottantuno imputati. L'accusa, per tutti, era quella di associazione jihadista e attività terroristica durante e dopo il golpe del luglio 2013 (quello che portò alla caduta di Morsi).
Al centro di questa seconda tranche processuale c’è nvece l’ormai famosa evasione dei vertici dell’organizzazione (circa trenta persone, tra cui Morsi) dal carcere di massima sicurezza di Wadi el Natroun: era il 29 gennaio del 2011, ultimo inverno dell’era di Mubarak. Quell’atto fu il preludio di ciò che sarebbe successo nella successiva primavera, i moti popolari contro Mubarak, la caduta del regime del raìs, le elezioni e la salita alla guida dell’Egitto, per la prima volta, di un ex dirigente dei Fratelli Musulmani, gruppo di origini dichiaratamente estremiste riciclatosi come forza istituzionale: quell’uomo era, naturalmente, Mohammed Morsi.
Per quell’evasione Morsi paga in quanto parte architettante (ne fu il regista, ma era anch’egli in cella come i suoi compagni), tutti gli altri “semplicemente” in quanto evasori. il numero oceanico di condanne si spiega col fatto che in quello stesso giorno, quasi sincronicamente, i detenuti dei Fratelli musulmani, in base ad un piano prestabilito fuggirono non solo da quella di Wadi, ma anche da altre prigioni del Paese: l’evasione di Wadi el Natroun fece da apripista alle altre, e fu inoltre “condita” da scontri a fuoco con la polizia, nel corso dei quali morirono diversi agenti.
La giustizia all’ombra delle Piramidi, dunque, ha decretato la morte per Morsi e per quasi tutta la nomenklatura della sua forza politica di provenienza. Questa sentenza, però, potrebbe rimanere inapplicata per volere del presidente egiziano in carica, generale Al-Sisi, l’ex ministro dell’Interno di Morsi che architettò il colpo di stato ai suoi danni nel luglio 2013. Al Sisi, secondo quanto nota Carlo Panella su Libero, non avrebbe alcun interesse a mitizzare la figura di Morsi e degli altri suoi compagni di partito facendone dei martiri; la sua intenzione sarebbe perciò quella di commutare la pena capitale in carcere a vita, come del resto è già successo per Badie.
Oltre alla valutazione delle prospettive legate all’ordine interno, nella decisione di Al-Sisi potrebbe influire anche un calcolo di equilibrio internazionale: è cosa notoria, infatti, che i Fratelli musulmani, messi praticamente al bando in Egitto, hanno però molti sponsor sia in Libia, dove sono componente fondamentale del governo di Tripoli, che in Turchia (basti sapere che Erdogan ne è un membro) e in Medioriente (Hamas, osserva sempre Panella, ne è in pratica la costola palestinese). Senza dire che l’Arabia saudita ha smesso di perseguitarli, e anzi ora li sostiene in funzione anti-Assad.