Era accusato di corruzione Xu Caihou, ex generale dell’Esercito di Liberazione Popolare spentosi la notte scorsa a settantuno anni per l’aggravarsi di un cancro alla vescica.
Lo annuncia l’agenzia di informazione cinese, Nuova Cina. Il suo decesso per cause naturali, malignano alcune fonti, solleva il governo cinese dall’imbarazzante incombenza di mettere in piedi un processo pubblico contro di lui, una "tigre", pezzo importantissimo dell’apparato.
Xu, infatti, era uno dei pesci più grossi, se non il più grosso, caduti nell’inchiesta anti-corruzione ordinata dal presidente Xi Jinping, una vera e propria “generalopoli”. Tangenti in cambio di promozioni nei ranghi dell’esercito: un meccanismo che ha bruciato la carriera e l’immagine di molti alti ufficiali, ma probabilmente l’autorità inquirente non si augurava che, a scendere negli abissi del marcio in divisa e stellette, ci si potesse imbattere anche nell’ex vice-presidente della Commissione Militare Centrale (dal 2004 al 2012), nonché dirigente del Partito Comunista fondato da Mao. O magari non avrebbe mai voluto indagare su di lui.
Essendo praticamente al vertice del supremo consiglio militare di Stato (sopra di lui c’è solo il presidente, che però lascia, di fatto, la gestione di tutto al vice), Xu, secondo una formula che ci è familiare, “non poteva non sapere”. Alle prime avvisaglie dell’inchiesta egli aveva fatto in tempo ad abbandonare ogni incarico militare: si era ritirato da tutto, infatti, sin dal marzo del 2013. Ma questo non lo ha messo al sicuro dalla maxi-indagine partita direttamente dallo Zhongnanhai (il palazzo presidenziale di Pechino) e soprattutto dalle conseguenze derivanti dalla condizione di indagato: sotto accusa dal marzo del 2014, infatti, era stato privato del titolo di generale e praticamente radiato dall’Esercito, oltreché espulso dal Partito Comunista.