Alle cinque del mattino di sabato 25 ottobre il presidente egiziano al-Sisi ha ordinato in Sinai lo stato di emergenza, che rimarrà in vigore per tre mesi, così come il coprifuoco notturno, esteso dalle 17.00 alle 7.00. Sine die è invece la chiusura del valico di Rafah, che collega l’Egitto alla Striscia di Gaza.
Misure eccezionali, risposta obbligata ad una due giorni di sangue che fa riprecipitare il Paese delle Piramidi nel clima di piombo del luglio 2013, seguito alla destituzione violenta del presidente Morsi. E’ ufficiale: anche l’Egitto ha a che fare con l’avanzata del terrorismo islamista in Medioriente. Non è che nella storia recente la regione del Sinai non si fosse già rivelata un fronte caldo: in quella zona scontri cruenti tra militari e jihadisti si erano già avuti nella notte tra il 9 e il 10 luglio del 2013. Ma, il 23 e il 24 ottobre, il riesplodere in loco della minaccia terrorista, in un quadro vicino- e mediorientale oltremodo infiammato, è improvviso quanto preoccupante. Ventisei militari egiziani uccisi giovedì in un attacco condotto da estremisti contro un loro check-point; altri undici morti il giorno successivo: vittime stavolta i soldati che si trovavano dentro e intorno un camion stazionante non lontano dall’aeroporto di Al-Arish, nella zona meglio nota come Karm el-Qawadees. Tra i miliziani islamisti c’era un kamikaze, che si è fatto saltare in aria davanti al veicolo.
Le autorità egiziane non hanno molti dubbi sugli autori delle stragi: per loro è certamente opera di Ansar Beit al-Maqdis, un gruppo estremista che ha l’”esclusiva” delle offensive antigovernative in Sinai sin dallo scoppio, nel 2011, della Rivoluzione egiziana. Oltre che per il Cairo, gli uomini di Ansar Beit al-Maqdis rappresentano un pericolo anche per Israele.