“Contro l’ebola serve una risposta globale più aggressiva”: anziché recarsi in Rhode Island, Connecticut e nello Stato di New York, a sostenere le campagne elettorali dei candidati democratici locali, il 16 ottobre il presidente Obama ha preferito discutere alla Casa Bianca del flagello del continente dei suoi avi con i responsabili delle agenzie federali statunitensi coinvolte nella lotta all’epidemia. E di come proseguirla, questa lotta: gli Usa, per parte loro, stanno facendo il possibile (come si sa, in Liberia c’è anche l’esercito a dare una mano), ma, proprio come contro l’Isis, è necessario un “gioco di coalizione”, un contributo più fattivo del resto della comunità internazionale. L’ebola non aspetta, riflette Obama con preoccupazione, ed è necessario fare qualcosa prima che la sua diffusione raggiunga livelli incontrollabili.
Naturalmente al presidente non sfugge che il pericolo ebola, nei fatti, è già in casa sua: è notizia del 15 che a Dallas il paziente zero ha contagiato anche Amber Vinson, una collega dell’infermiera malata dell’Health Prebyterian Hospital di cui si era già parlato (e che pare stia meglio). Ventiquattr’ore prima di accusare i sintomi del virus, la donna aveva viaggiato da Cleveland a Dallas su un aereo della Frontier Airlines, ma aveva la febbre già da qualche giorno, e, colpevolmente, aveva omesso di rivelarlo ai suoi superiori. Seguendo la stessa procedura attuata dalla United Airlines con i compagni di viaggio di Duncan, la Frontier sta contattando e mettendo in allerta i centotrentadue passeggeri che si trovavano sulla tratta Cleveland-Dallas insieme all’operatrice contagiata.