La sorte che doveva subire Mohammed Deif è toccata ad altri tre capi delle Brigate al Qassam. Il 21 agosto in un bombardamento a Rafah, che ha mietuto altri quattro morti, sono rimasti uccisi Mohammed Abu Chamala, Raed al-Atar e Mohammed Barhoum.
Chamala era il curatore della rete di tunnel sotterranei che permettevano ai combattenti palestinesi di sconfinare dalla Striscia in Israele e in Egitto. Al-Atar a Rafah era di casa, in quanto comandava il locale distaccamento delle Brigate. Il suo nome era legato al sequestro di un soldato ebraico appena ventenne, Ghilad Shalit, che rimase nelle mani di Hamas dal 2006 fino al 2011. Dopo essere scampato ad un attentato israeliano a luglio, appariva già come un altro predestinato a mitridatizzarsi dagli attacchi contro la sua persona, ma, fermo restando che Rafah non è Gaza City, la cronaca di queste ore si è incaricata di confermare, se mai ce ne fosse stato bisogno, che di Deif ce n’è uno. Barhoum, scrive l’Algemeiner, era un “comandante minore” (lesser commander): la sua sfortuna è stata quella di trovarsi in riunione con i due “pezzi da novanta” e di condividere, così, la loro fine. In realtà, però, non sembra neanche così certo che sia veramente morto.
Le parole di Netanyahu esprimono tutto l’orgoglio israeliano per il risultato raggiunto: il premier ha salutato l’uccisione, in un colpo solo, di questi tre comandanti palestinesi come “il più duro colpo mai inflitto ad Hamas da quando esiste”. Sembra di rivedere gli americani al tempo della seconda guerra del Golfo, la loro soddisfazione quando, di volta in volta, riuscivano ad eliminare dal famoso “mazzo delle carte da poker” un asso del regime di Saddam Hussein.