Ci sarà pure un presidente nero alla Casa Bianca, e da quasi otto anni, ma nell’America più profonda è ancora zio Sam contro zio Tom, esattamente come cento anni fa. La storia che viene dal Missouri è degna di un quarto capitolo della saga del detective John Shaft. Siamo a Ferguson, un sobborgo di St. Louis: qui una settimana fa un poliziotto di 28 anni, Darren Wilson, ha ucciso con una raffica di pallottole Michael Brown, un diciottenne di colore che, con un amico- complice, era appena uscito da una tabaccheria dove aveva compiuto un furto “miserabile”, un pacco di sigari per il valore di 48 dollari. L’episodio ha innescato la sollevazione violenta della comunità nera del posto, che dura ormai da giorni e ha costretto il governatore, il democratico Jay Nixon, a usare il pugno duro. Dal suo luogo di vacanza Obama non ha mancato di far sentire la propria voce per svelenire gli animi: con un messaggio ha criticato la polizia, per l’eccessiva severità usata nel reprimere i moti, e ha auspicato che l’inchiesta sul caso venga condotta nel modo più trasparente possibile. E’ un fatto, però, che mentre dall’altra parte del mondo i suoi soldati accorrono con successo in aiuto delle minoranze razziali e confessionali, curdi e yazidi, è proprio in casa che il Grande Paese continua ad avere il problema interrazziale più grosso: un problema, che decenni di lotte storicizzate per l’emancipazione, di epica della Blaxploitation e di filosofia del Black Power non hanno ancora estirpato del tutto, nella società reale.
Ciò che davvero ha esacerbato gli animi dei fratelli di pelle del povero Michael Brown, effettivamente, non è tanto che Wilson possa aver premuto (ripetutamente) il grilletto contro un presunto rapinatore come tanti, ma che l’abbia fatto perché, ed è il capo della polizia di Ferguson a dichiararlo, gli sembrava che il ragazzo intralciasse il traffico camminando in mezzo alla strada. Del furto, dice ancora il principale di Wilson, Thomas Jackson, al momento di sparare i sei colpi l’agente, in realtà, non sapeva nulla.
C’è poi il giallo del video registrato all’interno dell’esercizio teatro del furto: per molti amici di Brown il ragazzo ripreso dalla telecamera di sorveglianza non è lui. Qualche certezza in più arriva dall’autopsia effettuata sul cadavere dello sfortunato giovane. In base ad essa si evince che, delle sei pallottole esplose da Wilson, solo due sono state davvero fatali a Brown, quelle che lo hanno raggiunto alla testa. L’ex capo del dipartimento di Medicina legale di New York, Michael Baden, consultato in merito, ha osservato che il proiettile penetrato nella parte superiore del cranio lascia supporre che il ragazzo, quando è stato sparato, tenesse il capo piegato in avanti.