La vendetta e il consenso popolare.
Migliaia di persone sono scese in piazza sabato sera in tutta la Turchia a poco meno di ventiquattr’ore dal tentato golpe militare per festeggiarne il fallimento, e così rispondendo all’invito di Erdogan. Manifestazioni di giubilo ad Ankara, Istanbul, Izmir ed Erzincan, nel nord-est del Paese.
Giubilo anche per gli oltre seimila arresti (dei quali 2839 riguardano militari) ordinati dal governo con pugno di ferro? Il ministro della giustizia, Bekir Bozdag, che sta letteralmente assordando il Paese col clangore delle manette, ha comunque già detto che il numero aumenterà perché “è necessario continuare a fare pulizia”. Lo stesso Erdogan rincara la dose: “Faremo pulizia all’interno di tutte le istituzioni dello Stato del virus” rappresentato dai sostenitori di Fethullah Gülen, l’ideologo anti-erdoganiano ritenuto la mente del tentato golpe.
A dare una mano alla crociata repressiva di Erdogan e del suo governo ci si mette anche l’Hsyk, il Consiglio supremo dei giudici e procuratori turchi, che ha ordinato l’arresto dei 2745 magistrati che erano già stati rimossi dal loro incarico in quanto ritenuti vicini a Gülen. Sembra che il popolo turco sia sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda anti-Gülen del suo presidente: all’indirizzo dell’imam sono infatti apparsi degli slogan che recitano “La pagherà” e “Vogliamo la pena di morte”. Ma la furia dei sostenitori di Erdogan sconfina anche negli Stati Uniti: in Pennsylvania, infatti, a Saylosburg, un piccolo gruppo di manifestanti pro governo turco si è riunito intorno a quella che dal 1999 è la casa dell’ “uomo nero” Gülen, chiedendogli di lasciare gli Usa. Su di lui, dal 2014, Ankara ha emesso un mandato di cattura.
Sempre negli Usa il segretario di Stato, John Kerry, ha respinto le accuse del ministro degli Esteri turco, Cavusoglu, secondo cui gli Stati Uniti sarebbero dietro il fallito golpe di venerdì scorso. Per Kerry queste insinuazioni sono assolutamente “false” e danneggiano le relazioni diplomatiche tra Washington e Ankara, che, a sua detta, dovrebbe "concentrarsi di più sulla lotta contro lo Stato islamico”. Cavusoglu ha replicato dicendo che le relazioni potrebbero essere semmai danneggiate da un atteggiamento ostruzionistico degli Usa nei confronti di un’estradizione di Gülen. Ma il colloquio tra i due è servito anche a garantire che da Incirlik ripartissero regolarmente le incursioni degli aerei della Coalizione Internazionale contro l’Isis. Questo però non ha impedito che il comandante della base, Bekir Ercan, venisse anch’egli arrestato per presunta complicità con i golpisti.
E un mandato d’arresto eccellente è stato spiccato, come riferisce l’agenzia turca Anadolu anche ai danni del consigliere militare di Erdogan, anche lui macchiatosi di contiguità con i congiuratori. In particolare, l’alto ufficiale avrebbe rivelato ai golpisti che il presidente, la sera di venerdì, si trovava lontano da Ankara (nella località di Marmaris sull’Egeo, anche se altre fonti dicono Bodrum), e inoltre avrebbe facilitato il sequestro del segretario generale di Erdogan, Fatih Kasirga. Anadolu è anche la fonte per un’altra notizia: quella dell’afflusso ad istanbul di 1800 agenti speciali dalle province vicine, per pattugliare le zone critiche della città. Il capo della polizia, Caliskan, ha già avuto ordine di abbattere qualsiasi elicottero in volo senza autorizzazione sopra l’ex capitale ottomana. Parallelamente gli F-16 hanno ricevuto mandato di pattugliare l’intero spazio aereo della Turchia.
E in mezzo a tutto questo che succede all’Onu? L’Egitto, membro non permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e quindi senza diritto di veto, secondo fonti diplomatiche è riuscito comunque ad impedire che venisse approvata una risoluzione presentata dagli Stati Uniti per la condanna del golpe in Turchia: per l'approvazione del documento, infatti, era necessario il parere positivo unanime dei membri permanenti e non. Il Cairo tuttavia smentisce.