11 settembre: l’incubo (e la memoria di esso) continua.
L’Fbi non riesce a proprio chiudere l’ultradecennale dossier, anche perché non accenna a tramontare lo scenario della grande cospirazione panislamica contro gli Stati Uniti (di cui bin Laden e al Qaeda avrebbero magari potuto essere solo gli esecutori, finanziati).
Per esempio, continua a non quadrare quello che potrebbe essere stato l’effettivo ruolo dell’Arabia Saudita nei fatti di quella famigerata fine estate del 2001. Basti solo ricordare che quindici dei diciannove dirottatori provenivano proprio dallo Stato wahhabita. Ma è ancora intorno ad un nome in particolare che continua a concentrarsi una fitta costellazione di dubbi: il nome è quello di Fahad al-Thumairy, funzionario del ministero saudita degli Affari islamici presso il consolato di Riad a Los Angeles e nello stesso tempo imam, sempre nella città californiana, di una moschea dove avevano fatto tappa due dei dirottatori, Khalid al-Mihdhar e Nawaf al-Hazmi, pochi giorni prima dell’attentato.
I due gli erano stati presentati, per così dire, da un amico, quell’ Omar al-Bayoumi che si sarebbe di lì a poco scoperto essere un agente segreto saudita oltre che protettore dei due uomini (li avrebbe aiutati a sistemarsi a San Diego).
Quello dei legami di Thumairy con i terroristi è in effetti un vecchio affare: proprio a causa di essi nel 2003 l’uomo si beccò un’ espulsione forzata dagli Stati Uniti e il divieto di mettervi piede per cinque anni. Un anno dopo, due inviati a Riad delle autorità federali americane interrogarono al-Thumairy per quattro ore in due sessioni separate: ne venne fuori un documento di 28 pagine che, pur privo di ammissioni significative, è diventato comunque la base per la decisa riapertura delle indagini in queste ore.