Tutt’altro che un clandestino pericoloso e “alieno”.
Anzi, il classico vicino di casa tranquillo. Questo è in sostanza l’ennesima quinta colonna dei mujaheddin, Omar Mateen: 29 anni, cittadino americano di origini afghane con un lavoro regolare (guardia giurata) e regolarmente residente a Fort Pierce (capoluogo della contea di St. Lucie in Florida). Prima che, con una chiamata al 911, avvertisse della strage che era in procinto di fare al gay club “Pulse” di Orlando giurando fedeltà all’Isis, non sembra che avesse mai fatto niente di più sovversivo che frequentare la moschea abitualmente.
Eppure… eppure l’Fbi, ora che l’uomo è balzato agli onori delle cronache per un atto assolutamente al di fuori dei suoi apparenti standard di vita, ammette che sul suo conto c’erano in realtà delle indagini sin dal 2013. Indagini incentrate proprio sui suoi possibili legami col terrorismo ((anche se in realtà non si è ancora capito se si tratti di attentato terroristico vero o proprio o piuttosto di atto omofobo con rimandi puramente ideali alla Jihad). Nel corso di quell’anno, Mateen venne interrogato due volte ed in entrambi i casi prontamente rilasciato. Ma le autorità federali tornarono ad occuparsi di lui anche nel 2014, perché sospettato di essere in contatti col primo siro-americano che firmò un attacco kamikaze in Siria, Moner Mohammad Abusalha.
Come se non bastasse, emergono retroscena desolanti sulla vita privata dell’uomo. L’ex moglie - la sua prima moglie, Sitora Yusufiy -, si è confessata al Washington Post poche ore dopo la strage e l’arresto di Mateen, lo ha accusato di maltrattamenti fisici e abusi, che le infliggeva per pura e semplice frustrazione personale. “Non era una persona stabile. Tornava a casa e iniziava a picchiarmi perché, ad esempio, la lavatrice non era finita.” Mateen e la donna si erano conosciuti online alla fine del decennio scorso; erano divorzati dal 2011. Successivamente il futuro stragista si era risposato ed era diventato padre.
Prima l'attacco, l'uccisione di un agente di polizia e quindi la sparatoria alla cieca contro i clienti del locale da parte di Mateen, poi il suo asseragliamento con i superstiti della strage, divenuti ostaggi. Tre ore interminabili di terrore, quelle dalle 2.00 alle 5.00 di domenica 12 giugno (più o meno dalle 8.00 alle 11.00 in Italia), riempite da parte di molte delle vittime da un profluvio di post sui social network o messaggi ad amici e parenti sul cellulare: tra i “carteggi” più emozionanti c’è quello del trentenne Eddie Justice, fino all’ultimo rimasto in contatto con la madre Mina via sms mentre si trovava, nascosto insieme ad altri malcapitati, nel bagno del locale: lì si era rifugiato subito dopo aver udito i primi spari.
La serie di messaggi inviati da Eddie dalle 2.06 alle 2.50, in un crescendo di disperazione e di angoscia, è una radiocronaca raccapricciante della marcia di avvicinamento del carnefice a lui e agli altri che avevano tentato di celarsi alla sua furia omicida. Richieste di aiuto in codice: “Mamma, ti voglio bene.” Aggiornamenti in straziante tempo reale: “Nel club stanno sparando.” “Intrappolato nel bagno.” “Chiama la polizia.” “Sto per morire.” “Sta arrivando. Sto per morire. Ci ha preso (Mateen, ndr).” E poi, la pennellata finale, ad un tempo ritratto del mostro, ormai materializzatosi davanti ai suoi occhi, e della sua stessa situazione emotiva: “È un terrore.”