Ormai quasi al tramonto della sua era presidenziale.
È allora che il marito Bill subì lo scandalo azzoppante. Alla moglie, Hillary, è toccato invece in sorte di doverlo affrontare a pochi mesi dall’inizio della corsa per le primarie presidenziali. Una corsa in cui, a differenza di quella “trasparente” del 2008 (persa nel confronto con Obama), partiva come favorita, quasi assoluta, sul fronte democratico. A dire il vero, nonostante l’ombra del mailgate (perché è questo lo scandalo di cui parliamo), la superiorità di Hillary, fino a questo punto delle primarie, non è apparsa certo minata: per quanto Bernie Sanders possa essere un degno e insidioso avversario, il margine di vantaggio che, quanto a numero di delegati, l’ex First Lady può vantare sul senatore del Vermont non sembra lasciare troppi dubbi ai bookmakers politici.
Però… però. Quella macchia che risale ai tempi in cui ella era segretario di Stato, durante il primo mandato di Obama, potrebbe sempre riemergere al tavolo da gioco di queste elezioni, inesorabile come una luna nera nel mazzo della Zingara. Teme, Hillary, questa possibilità?
A parole no, e lo ha ribadito nel corso di quel confronto televisivo con Sanders che aveva preceduto i caucus del 12 marzo scorso. Lei, così dichiarò, non temeva di poter finire incolpata per la vicenda dell’abuso del suo account di posta privato (“Non accadrà”, aveva risposto al moderatore dell’incontro che l’aveva provocata ricordandole la vicenda), e questo sulla base di una precisa constatazione: altri segretari di Stato che avevano ricoperto la carica prima di lei si erano fatti mandare comunicazioni e materiali istituzionali sulla mail privata, senza che questo potesse essere visto come un comportamento anomalo o illegale. Insomma, aveva fatto intendere Hillary, il polverone potrebbe essere stato creato proprio per danneggiarla nelle elezioni.
Dall’altra parte Sanders, con la sua indiscutibile signorilità, aveva rinunziato a maramaldeggiare girando il coltello nella ferita dell’avversaria. Si era anzi limitato semplicemente a dire “La giustizia farà il suo corso”. Forse, quando di fronte ad Hillary ci sarà Trump (sempre ammesso che riesca ad arrivare a quel punto), le cose andranno un po’ diversamente.
Uno scenario così, in effetti, sembrava davvero molto probabile almeno fino alle soglie della Pasqua: i due, Trump e mrs. Clinton, continuavano a cavalcare insieme, proprio come in un film di John Wayne, verso la vittoria finale delle primarie. Il 15 marzo scorso la candidata democratica si era resa protagonista di un fin troppo esaltante filotto andando a vincere, e sempre con percentuali tutt’altro che insignificanti, nei tre stati in cui era programmato il voto (Florida, Illinois, Missouri e North Carolina). Poi, il 22 marzo, il canto del cigno con la lussuosa vittoria in Arizona (57,6%) e l’inizio di una flessione davvero preoccupante: Sanders va a prendersi Idaho e Utah con percentuali bulgare, rispettivamente 78% e 79%, e quattro giorni dopo, il 26 marzo, fa ancora meglio andando a vincere in tutti e tre gli stati teatro della competizione: Alaska con l’81%, Hawaii con il 69% e Washington con il 72%.
Più stabile la tenuta di Trump in campo repubblicano: il 15 marzo vince in Florida, Illinois, Missouri e North Carolina e perde in Ohio, però non a vantaggio di Cruz, bensì di Kasich; il 22 marzo, poi, si afferma in Arizona (47,1%), ma lascia lo Utah al senatore texano, che trionfa a mani basse (69,2%).