Paura a Idomeni.
Improvvisamente, infatti, è emergenza epatite nel campo profughi greco al confine con la Macedonia, colpito nei giorni scorsi da piogge copiose. Qui stazionano a tutt’oggi dodicimila migranti che, pur non avendo perso le speranze di giungere nella ricca Europa occidentale, devono però fare i conti con la chiusura della frontiera lungo la rotta balcanica. Va tenuto conto, naturalmente, che quei poveri e disperati dodicimila sono solo una fetta dei quarantaquattromila immigrati oggi presenti su tutto il territorio greco, un numero che eccede ampiamente l’effettiva capacità di accoglienza del Paese, “ottimizzata” per non più di trentunomila unità.
I media macedoni hanno riferito alla fine della scorsa settimana di due ospiti del campo risultati affetti dall’epatite A, l’epatite più diffusa nel pianeta, causata quasi sempre da condizioni igieniche precarie: uno dei malati è una bambina siriana di nove anni.
Al dramma sanitario (o al possibile dramma sanitario) si aggiunge l’ennesimo episodio luttuoso: lunedì 14 tre migranti afghani della rotta balcanica, due uomini e una donna, sono morti annegati nel tentativo di attraversare a nuoto il fiume Suva Reka, sempre al confine tra Macedonia e Grecia.
Intanto, per il ministro degli Esteri austriaco, Sebastian Kurz, il modello fornito dalla chiusura della rotta balcanica andrebbe seguito anche su quella che potrebbe condurre i profughi in Italia. “Il traffico di migranti non si ostacola facilmente”, dice alla stampa del suo paese. “Sarebbe importante fare tutto quello che è stato già fatto lungo la rotta balcanica anche sulla rotta Italia-Mediterraneo, così da chiarire le idee circa il fatto che il tempo del lasciapassare verso la Mitteleuropa è finito, qualunque sia la rotta percorsa.”