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Le nonnine di San Valentino

Non solo fidanzati ma anche aspiranti nonni alla basilica di Terni

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Si sa, ci si sposa sempre meno e sempre più tardi. I matrimoni sono spesso turbolenti e poco duraturi.

I bambini, frutto sudato e goduto, (soprattutto goduto) delle prime notti di nozze, pochi, pochissimi. Le culle sono vuote e a piangere non sono più dei paffuti pargoletti, ma – udite udite – delle giovani aspiranti nonne. Sì, non abbiamo scritto un marron glacé … a piangere, sono delle cinquantenni ex sessantottine che non riescono a convincere i figli, per lo più unici, a sposarsi e a procreare.

La signora, di solito, professionista o giovane pensionata, nelle sue notti buie, lacerate solo dal russare del compagno che le dorme accanto, è ossessionata dall’idea di non poter diventare nonna. Pensare che una volta, le donne della sua età, di nipoti ne avevano almeno una quindicina. Essa, invece, non dico uno, ma neppure un accenno di gravidanza tra figlie e nuore. Se poi confida i suoi timori al locomotore che le dorme a fianco, quello le risponde con un tonante: “Me ne frego!”

Bell’educazione! E nel cuore della notte! Del Romagnolo duro e puro, e soprattutto nero, avesse ereditato, oltre alla tracotanza, anche quel granitico, “osare sempre” che faceva impazzire le signore della Roma bene degli anni trenta.  Macché!

Ma c’è una provvidenza anche per la cinquantenne ex-sessantottina.

 Non scende dallo storico balcone, ma da Terni, dove si erge la basilica di San Valentino, dentro cui si conserva il corpo del santo vescovo, martirizzato nel terzo secolo, protettore dei fidanzati e gran istigatore ai matrimoni religiosi, con susseguente, prolissa figliolanza.

Saputolo, l’avvenente sessantottina, decide una sortita in terra umbra, al grido di: “Una gita a Terni, val bene un titolo da nonna” E si tira dietro lo sbuffante compagno.

Provenienti, da Roma o da Milano, o da qualche anfratto dove ormai l’italico vagito rischia d’essere sfrattato da quello arabo o cinese, arrivano a Terni. Un po’ turisti ed un po’ pellegrini, litigando ogni cinquanta metri, vagano per le piazze e i vicoli alla ricerca della chiesa che celano le venerate ossa. Da buoni imbranati non la trovano. Cercano allora un prete, ma qualcuno dice loro che hanno visto l’ultimo partire all’alba, su un pulmino stipato di parrocchiane. Destinazione, forse, San Giovanni Rotondo. Domandano allora informazioni a due ragazzi arabi seduti su un muretto, i quali gli indicano degli uomini sbracati ai tavoli del bar di fronte. Peggio che andar di notte. Quelli, sprezzanti, sputano per terra e giurano di non conoscere santi. Qui, tra i compagni di pensiero e di mugugno,  il marito, trafelato e sudaticcio, esplode in tutto il suo ateismo. “Basta con queste cavolate!” grida, in mezzo alla piazza, spaventando un cane che l’attraversa. “Io, credo solo alle cose che vedo. L’unico santo che conosco è San Giovese. ”

Per chi non lo sapesse, altro nero, duro e puro di Romagna. Ma non un duce, bensì un vino. Ah, se non fosse per il diabete, sai quanto se ne berrebbe? Altroché messe e pellegrinaggi !

Ma lei non molla. Di battaglie ne ha fatte di ben più dure, al tempo di: “E’ mia e me la gestisco da me” E pensare che, allora, gliela chiedevano tutti i giorni. Oggi, invece, dopo una vita col diabetico puzzone, non le resta che sperare di diventare nonna.

Dopo molto camminare, con le gambe rotte e le bocche secche, senza più neppure il fiato per lanciarsi un ultimo lancinante vaffa, si ritrovano, davanti alla facciata della basilica.

La sessantottina entra. Trova la cappella dove riposa il vescovo Valentino, ma senza testa. (Il santo non la perse per le donne, ma fu donata in qualche secolo buio, da un altro vescovo, forse invidioso, a una chiesa di Sassocorvaro, ridente cittadina vicino a Urbino, dov’è tuttora conservata.) 

Davanti alle reliquie, l’indomita signora s’inginocchia. Prega. Chiede. S’illumina in volto. Già dopo pochi minuti, sente d’essere stata esaudita. Sì, sarà nonna!

Solo il compagno si ostina a restare fuori.  

Lui, ex rivoluzionario duro e puro, con quel Gesù là, dentro la chiesa, che duemila anni fa disse: “Senza di me, non farete niente”, non ci parla.

Inquieto passeggia davanti al sagrato e, di tanto in tanto, si specchia in una finestrella dai vetri troppo sporchi per riflettere la sua mascella da sputasentenze, gran masticatore di tagliatelle.  Si guarda e non si vede. Si cerca e non si trova.

Cala la sera. Lei, ancora dentro. Lui, ancora fuori. Turbato e meditabondo, ad un tratto si chiede: “Marx,  dio della mia gioventù, dove sei?”  Ma quello non risponde. Allora invoca Mao. “Dove sei, Mao- Tzetung?”  E da sopra un muretto gli fa eco un gattaccio nero con un irridente: “Mara-mao perché sei morto?”  Disperato grida: “Lenin, torna! Fa’ qualcosa. Qui la gente torna a cianciar coi santi!” Ma il capo della rivoluzione d’ottobre, da un sinistro al di là, gli risponde “Lasciami perdere. Sono solo una mummia secca.” Gli occhi, gonfi di lacrime, del vecchio compagno si alzano verso la luna che sta sorgendo. E’ rossa. E beffarda sembra dire: “Ca’ nu’n ci sta chiù nissuno. C’è rimasto solo nu mare e munnezza!” No! E’ troppo!  Ha sbagliato tutto. Non ha capito niente. In preda a tanto struggimento, si ricorda di aver letto i libri di Pansa, l’ultimo giornalista con attributi, e viene preso da un’inconfessabile fantasia: fare risorgere, tra i tanti ragazzi in camicia nera, fatti sparire sulla strada di casa, nell’aprile del ’45, un plotone di repubblichini o di alpini della Monterosa o della XMas, per chiedere un’onorata fucilazione. Si guarda attorno, ma  non si muove una foglia. Solo un  cane, forse anche lui ex leninista, mosso da canina pietà, alza la sua vecchia zampetta e gli orina su una scarpa. Quasi un mesto e tiepido: onore ai vinti.

In cielo, intanto, brilla già una stella. E non è la stella rossa. Ohi!

 

 

 

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