Processo Concordia, la parola a Domenico Pepe, l’avvocato del capitano tutt’altro che coraggioso, Francesco Schettino. La tesi del legale, espressa il 9 febbraio, è che, se il comandante non era all’altezza della situazione, la ciurma ai suoi ordini era ancora più scadente. Pepe non usa mezzi termini per esplicitare questo concetto: parla di “equipaggio penoso”, sia dal punto di vista della “preparazione in caso di emergenza” che da quello delle “capacità nautiche”. Nella tragedia del gennaio 2012, sostiene l’avvocato nella sua arringa, le responsabilità devono essere necessariamente condivise: in presenza di “comportamenti non consoni ai ruolo e alle mansioni” manifestati da molti di quelli che collaboravano fianco a fianco col capitano, non si può fare di una sola persona il capro espiatorio di tutte le colpe.
Schettino, il suo legale ci tiene a sottolinearlo, “è una persona perbene, il pm sbagliò a definirlo, offensivamente, idiota”. Entrando poi nel merito della vicenda che ha stroncato la carriera nautica del suo assistito, Pepe afferma che fece bene a “ritardare l’allarme”: questa decisione, spiega, fu senza dubbio motivata dalla valutazione fatta da Schettino che, diversamente agendo, “avrebbe messo in pericolo la vita delle persone”. Come è noto, la Costa Concordia naufragò venerdì 13 gennaio 2012 urtando uno scoglio nelle acque dell’isola del Giglio (Toscana): secondo l’accusa Schettino è colpevole di aver provocato la collisione della nave con la sua decisione di fare il cosiddetto “inchino” al Giglio (cioè una manovra che comporta un avvicinamento anche rischioso alle coste di un’isola, come se la si volesse salutare), e poi di aver abbandonato l’imbarcazione prima di aver messo in salvo tutti i passeggeri.