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È l’Ora che la poesia si apra a un altro Mondo

Vincenzo Ciervo ci parla del libro del poeta Marco Amore "L'Ora del Mondo"

Redazione
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Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può.

Non è sprecato scomodare il classico Bompiani Carmelo Bene se ci si trova di fronte a un autore che avanza la pretesa di versificare nientemeno che l’economia. Poesia ed economia, altro che Caino e Abele.  D’altronde Marco Amore ce l’ha scritto nel curriculum, è difficile legare a un mestiere specifico il suo talento, che vuole ciò che il suo genio può: curatore di mostre di arte contemporanea; progettista presso una società di consulenza integrata per le imprese; poeta, se si pensa all’opera che lo ha consacrato nel 2019, Farràgine; scrittore, se si ricordano i romanzi che comincia a pubblicare già da adolescente, testimonianze di una precoce necessità espressiva. Insomma, solo una personalità così trasversale poteva concepire un poema di tale risma. 

L’Ora del Mondo è ciò che deve essere: una scorciatoia spazio-temporale che riesce nel gravoso incarico di annullare la distanza tra due pianeti lontani anni luce. Difatti verso dopo verso, pagina dopo pagina non solo emerge l’urgenza -dettata dai tempi moderni- che l’arte della parola si avvicini a raccontare la scienza del denaro, ma soprattutto stupisce la naturalezza con cui ci riesce. Uno stupore, a pensarci bene, immotivato, giacché se la poesia ha avuto uno scopo -diciamo pure sociale- nella storia dell’avventura umana è stato proprio quello di presentare nero su bianco fatti di vita vissuta nei quali il lettore si poteva riconoscere senza forzature; e il fatto predominante del nuovo millennio è senza dubbio un’economia che è andata viepiù consegnandosi ai soli addetti ai lavori ma che condiziona come non mai -anche e soprattutto- le traiettorie esistenziali di chi di politiche restrittive e tassi d’interesse non mastica un’acca: paroloni come mutui subprime, derivati, cartolarizzazioni sembrano appartenere alle giacche blu navy di Wall Street o ai profumati studenti di Harward, ma quando nel 2008 esplose la bolla molti padri di famiglia videro tradotti quei paroloni in una lettera di licenziamento, nel prezzo del latte aumentato, negli occhi dei loro figli all’ordine di rimettere la barretta di cioccolato nello scaffale. L’economia c’è, esiste, è in mezzo a noi e per quanto non siano immediatamente pratiche le leggi che la governano, lo sono eccome gli effetti che provocano sulla pelle delle persone. Una poesia attenta non può lasciare tutto questo ai manuali di finanza, deve cominciare a tradurli, come solo lei può fare, affinché i lettori di questa generazione possano continuare a riconoscersi nei suoi versi, e, come hanno fatto quelli delle passate generazioni, attingervi la comprensione di una realtà che non può, non deve, essere appannaggio dei soli addetti ai lavori. È l’Ora che la poesia si apra a un altro Mondo.

Marco Amore affida il suo poema destrutturato a una forma e a un linguaggio complessi, sostenuti da un ritmo che accompagna piacevolmente la lettura. Ma la sua è una poesia che quando ha da esser cruda non si fa cogliere certo a imbellettarsi. Sa essere diretta.

È diretta sin dalle prime pagine del libro, quando deve restituire al lettore la monotonia del quotidiano in cui i domani che cantano sono lontani e le rêveries dei vent’anni foto oramai ingiallite “niente scarti di aspirazioni, inutili ideali / nel recinto delle convenzioni sociali”, “mattine tutte uguali”, “il ripetersi delle consuetudini”, “il simbolo di un’epoca”; è diretta nel descrivere la progressiva disumanizzazione della società tecnocratica in cui nessuno sfugge alla catena di montaggio “in cui l’uomo diventa speculare al parco macchine”; è diretta nel dirci che c’è chi è disposto a lavorare per 5 euro l’ora, altro che 5 e cinquantacresce il tasso di povertà assoluta familiare; / il divario delle disparità socioeconomiche / tra il vertice della piramide distributiva e il resto della  / [popolazione”; sembra addirittura abdicare, lasciando il posto a una prosa dal linguaggio tecnico, burocratico, amministrativo, quando passa a spiegare il lavoro del protagonista “il lavoro consiste nel redigere il Piano di Impresa di misure a sostegno del processo di internalizzazione di Cassa Depositi e Prestiti; di investimenti innovativi per la trasformazione tecnologica e digitale e procedure negoziali […] gli capita di lavorare a incentivi rivolti agli Enti del Terzo Settore”. 

Qui è in errore chi esclude che l’atteggiamento da assumere nei confronti di questa poesia possa essere quello della critica letteraria o chi crede che di fronte a tale morte apparente del poeta non si debbano scrivere analisi stilistiche, bensì un elogio funebre o dei versi civili. Il motivo è precisato dall’autore stesso “dovrebbe ricorrere a qualche figura retorica, / forse / ma perché indorare la pillola, / perché mascherare il sapore della monotonia con l’allitterazione”. Non si può fare poesia con la poesia, come non si può vivere con la vita. Il poeta deve disconoscersi, compiere cioè un’operazione che è consustanziale alla poesia stessa. Solo uscendo dalle figure retoriche può abbandonarsi alla prosaica realtà e restituirla al verso cui è destinata. C’è poi una motivazione squisitamente giacobina: il poeta intende scioperare contro un mondo che sembra non lasciare spazio alla poesia, contro lo stato di estraniazione, di smarrimento dell'uomo che, nell'odierna società e civiltà tecnologica, e nell'organizzazione dei ritmi della vita, si sente ridotto a oggetto, e pertanto colpito nella propria identità e strappato alla propria autenticità “il concetto di rapidità / è basilare in questa tecnocrazia”, “non può scegliere quanto lavoro svolgere / in proporzione al tempo che i figli / impiegheranno per crescere”, fino a cheIl lavoro ha spento la sua scintilla divina”.  Il protagonista è un personaggio-pretesto, una figura di servizio in cui ciascun lettore può riconoscersi. Chi non ha mai visto spegnersi la propria scintilla da pile di responsabilità familiari e di scadenze lavorative. L’Ora del Mondo assume in questo senso i connotati di una protesta, di una critica sociale, elevando l’individuale a universale, com’è compito della poesia fare. 

Allora dammi di nuovo il tempo / in cui mi stavo formando ancora, / in cui un fiotto di nuovi canti / in me sgorgava ininterrotto […] dammi di nuovo la mia gioventù!” dice il poeta nel Faust di Goethe. Ma la scintilla divina non si ritrova nel ricordo della gioventù passata, bensì nel fare i conti, in tutta lealtà, verso quello che si era e verso quello che si è diventati. In questo modo si può capire cosa si vuole diventare e dare così un senso al futuro, al tempo che passa. Privilegio di quei pochi che hanno il tempo -merce sempre più rara- di fermarsi a riflettere su sé stessi. Privilegio di cui non dispone il protagonista. Egli attraversa le tre stagioni in cui si dispiega l’opera completamente assorto negli impegni di lavoro. L’estate, l’autunno, l’inverno trascolorano il milieu che lo circonda senza sfiorarlo. È autunno, la pioggia rende inagibile la strada ma lui deve andare in ufficio “deve affrontare un labirinto unicursale / di pioggia, / l’auto che sbanda / in discesa”; in estate “sente il frinire dei grilli”, “gli ombrelloni / listati di salsedine” ma ecco arrivare “telefonate moleste: ‹‹A che punto è la mia pratica, / le detrazioni fiscali per interventi / di ristrutturazione edilizia…›› / ‹‹anche in ferie››”; è inverno, il Natale è alle porte, predispone meccanicamente -come un automa- gli addobbi, senza pensare alla cosa più importante “sua figlia gli chiede: / ‹‹Papà, con chi trascorreremo la Vigilia?››”, non c’è risposta “un’epoca dove hanno / le palline glitterate con decorazioni / a perline / e nessuno con cui festeggiare il Natale” e conclude con un “noi” che coinvolge tutti “dove abbiamo / tutto e niente”. 

La primavera viene solo citata “Oh triste primavera dei popoli, / ti attardi solitaria”, “la primavera riaffiora ogni anno”, “le schiarite di dicembre / riportano a una falsa primavera”. È una stagione simbolo di rinascita, dalla quale è ancora molto lontano il protagonista, e noi con lui. Simbolo di rinascita è L’Ora della Terra, un evento al quale si richiama il titolo del poema e che ogni anno invita milioni di persone a spegnere per un’ora le luci artificiali, gesto che vuole sensibilizzare in merito alla necessità di salvare il pianeta dall’inquinamento: volendo citare Carletto Manzoni, L’Ora del Mondo ci dice che la primavera è quella stagione nella quale tutti corriamo all'aperto per respirare finalmente un po' di fresche esalazioni di benzina

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