Superato dai tempi, prima di tutto quelli politici, scompare dalla scena editoriale l’Unità, il quotidiano creato nel 1924 da Gramsci, che gli diede anche il nome. Sopravviveva ormai a se stesso e all’epoca da cui proveniva, quella Prima Repubblica fondata sulla contrapposizione tra Dc e Pci e soprattutto sulla necessità di evitare che quest’ultimo facesse il sorpasso. La crisi di identità del giornale “falce e martello” ormai era irreversibile, ma negli ultimi tempi ad essa si era aggiunta anche quella finanziaria. E il congedo dalle edicole è stato un passo obbligato.
E’ destino che un giornale di partito debba seguire, in tutto e per tutto, la parabola storica di quel partito. All’Unità, da questo punto di vista, era andata parecchio meglio che ad altre testate “colleghe” sue coetanee (o quasi). Il foglio gramsciano nacque quando la scena dell’informazione partitografica (sì, non è un refuso: partitografica, non partitocratica) era occupata da realtà come l’Avanti!, Il popolo d’Italia, Il popolo, e, ancora molto dopo che esse si erano estinte o erano state costrette a stravolgersi per rinascere, l’Unità ha continuato ad essere un prodotto attuale, vendibile. Però nel dna non ha mai avuto l’ambizione di diventare il giornale di riferimento di tutta la sinistra: il suo orizzonte, tutto sommato, è sempre stato irrimediabilmente rosso, il suo lettore-tipo il veterocomunista (o orto-comunista) con la rivoluzione e l’utopia egualitaria nel cuore. Nel corso dei decenni, accanto a l’Unità, già altri modelli di riflessione e di informazione si erano imposti a sinistra: il Manifesto, opera, nel 1969, di un gruppo di dissidenti dal Pci; e la Repubblica, il “giornale-partito” apparso nel 1976.
E’ evidente che ripercorrere la storia de l’Unità è quasi come rivivere quella del Pci, e delle sue evoluzioni successive. Ed è altrettanto evidente che nell’era del Pd, che non è l’ultima evoluzione del Pci, ma il punto di confluenza della sua ultima derivazione, doveva occupare un posto sempre più marginale. Fino a scomparire. Una cosa, però, va detta: è molto più facile tenere a mente la cronologia dei segretari succedutisi alla guida del Partito Comunista Italiano (compresi Pds e Ds) che non quella dei direttori de l’Unità.
Gramsci ideò il giornale, ma non lo diresse mai. Lui vivente, gli uomini che si susseguirono come suoi direttori furono Ottavio Pastore, Alfonso Leonetti, Mario Malatesta, Riccardo Ravagnan e Girolamo Li Causi. Provenivano tutti dalle file del Partito Socialista, e quasi tutti furono padri fondatori del Pci. Poi il regime fascista decise di sopprimere la testata, e per diciassette anni scomparve dalla circolazione.
L’Unità riapparve in forma clandestina nel 1943, nella fase più tragica della II Guerra Mondiale in Italia, avendo come direttore Eugenio Curiel. Curiel era appena fuggito da Ventotene, il luogo del suo confino, e si prodigava per dar vita ad un Fronte che raccogliesse i giovani antifascisti di tutti i partiti. Morì nel ’44, in un agguato tesogli dalle Brigate Nere. Ormai, però, i tempi erano maturi per far tornare il giornale legalmente in vendita: nella Roma restituita alla sua libertà, a guidare la testata negli anni della lotta partigiana e del cambiamento della forma di Stato furono Celeste Negarville, Velio Spano e Mario Montagnana. L’11 febbraio 1947 ci fu l’avvento di Pietro Ingrao, che restò al timone per dieci anni. Uomo di grande carisma e indiscutibile maitre à penser, riuscì a rendere profondamente “ingraiano” il giornale, tanto da affidarlo ad Alfredo Reichlin, nel ’57, come se fosse un suo delfino. Inoltre Ingrao fu il primo a fare della direzione dell’Unità un trampolino di lancio per la carriera nel partito. La gestione Reichlin fu però un po’ più breve di quella del suo “mentore”: si interruppe nel ’62 per i contrasti tra togliattiani e ingraiani. Ma anche per lui si aprivano le porte di una lunga carriera politica. All’Unità arrivò quindi il reggino Mario Alicata, che nel ’64 divenne membro della segreteria del Pci. Lasciò nel ’66, per far posto a Maurizio Ferrara, già segretario particolare di Togliatti. Ferrara diresse il giornale prima da solo, fino al 14 dicembre di quello stesso ’66, e poi in tandem con Elio Quercioli, fino al 1969. Dopo la parentesi Pajetta (1969-70), iniziò il quinquennio di Aldo Tortorella, avversore del “compromesso storico”. Seguirono Luca Pavolini, che, per ironia della sorte, era discendente di uno dei più famigerati gerarchi fascisti, e il Reichlin II. Al tramonto dell’era berlingueriana il giornale vede al comando Claudio Petruccioli ed Emanuele Macaluso. Il primo è costretto a dimettersi per lo scandalo di un’inchiesta falsa sui rapporti tra Scotti, ministro Dc, e la camorra; il secondo diventa, dopo Ingrao e prima di Veltroni, il direttore più significativo nella storia dell’Unità. E’ l’uomo che apre all’insertistica per favorire le vendite, che con lui avevano già raggiunto uno storico record in occasione dei funerali di Enrico Berlinguer. Macaluso lascia nell’86 e gli subentra Gerardo Chiaromonte, che alterna l’impegno da direttore a quello di presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata. Nell’88 altro cambio di direzione: arriva Massimo D’Alema, che sarà uno dei protagonisti della “svolta epocale” ormai nell’aria (la trasformazione del Pci in un quadro globale politico-ideologico in rapido cambiamento). Nel ’90 è la volta di Renzo Foa, il primo esterno al partito, che poi continuerà su giornali di sponda opposta a quella Pci e post-Pci (approderà al Giornale e dirigerà Liberal). L’inizio dell’era Veltroni è datato 1992. Siamo in piena Tangentopoli; c’è in corso una bufera politico-giudiziaria che sta abbattendo tutti i partiti su cui si regge il sistema politico italiano da cinquant’anni, ma lascia indenne il Pci (ora diventato Pds). Veltroni, riprendendo la linea macalusiana ma conformandosi anche ad una tendenza di mercato più generale, punta molto su inserti e allegati: per la prima volta nella sua storia l’Unità distribuisce libri e vhs, che fanno la fortuna del giornale in quegli anni e ne allargano la popolarità. Inoltre, nel ’95, l’Unità è il primo quotidiano italiano in assoluto a sbarcare su Internet. In quello stesso anno Veltroni è in corsa per la segreteria del Pds, lasciata vacante da Occhetto: ma alla fine gli si preferisce D’Alema, forse anche per non contravvenire alla tradizionale regola (non scritta) per cui il direttore dell’Unità non può concentrare nelle sue mani anche la segreteria del partito. Quando Veltroni lascia, nel ’96, la sensazione è che nessuno potrà più fare meglio di lui. E’ iniziata una nuova era: il giornale, nei fatti, è sempre più sganciato dal partito ed è interessato da un processo di privatizzazione. Dal ’96 al 2000 non bastano quattro direttori, tutti giornalisti di esperienza (Caldarola, Fuccillo, Gambescia, poi ancora Caldarola), per scongiurare il brusco calo di vendite. All’inizio del nuovo millennio la testata potrebbe già tracollare, ma Alessandro Dalai, editore di successo, si inventa una società ad hoc per il suo salvataggio, Nuova Iniziativa Editoriale, e, con la successiva entrata in scena di Renato Soru, le regala una nuova stagione di vita. L’ultima, mentre il Pds cambia denominazione in Ds. I direttori principali di questa fase sono Furio Colombo, Antonio Padellaro, con i quali l’Unità diventa una sorta di ala integralista in un’area di informazione ormai egemonizzata da Repubblica, e Concita De Gregorio, che decide l’introduzione del formato-tabloid. Colombo fu il secondo direttore de l’Unità, dopo Petruccioli, costretto a dimettersi, in questo caso, secondo Marco Travaglio, per pressioni provenienti da ambienti Ds. Nel 2011 la De Gregorio, che proveniva da Repubblica, torna alla casa-madre e lascia la guida del giornale a Claudio Sardo, che cambia ancora formato (adotta il berlinese) e si dedica a potenziare la community del sito dell’Unità. Sa già, probabilmente, che non c’è più futuro nel cartaceo. E non è un caso che, nel 2013, lasci la direzione proprio al responsabile web del giornale, Luca Landò. A lui spetta l’ingrato compito di sospendere le cure al vegliardo moribondo, giunto al novantesimo anno di vita: il 30 luglio, con una scelta simbolica molto forte, l’Unità esce per la penultima volta in edicola con sedici pagine bianche e solo due di contenuti. Il giornale dei comunisti duri e puri decide di morire così, senza troppe autocelebrazioni, e affidando il suo congedo dai lettori ad un cubitale j'accuse in prima pagina, "Hanno ucciso l'Unità"; metafora perfetta della coscienza di sinistra sprofondata nell’anonimato, ma chissà quanti pugni chiusi alzati in aria si saranno visti tra la gente che usciva da chioschi e bancarelle.