Il calendario civile d’Italia è segnato da molte ricorrenze, ogni giorno c’è un anniversario e un evento che ne ha segnato la storia. Spesso, troppo spesso, col sangue. L’Italia è il Paese al mondo, probabilmente, più ricco di cultura e bellezza. Ma è anche il Paese in cui sono cresciute - con complicità, connivenze e alleanze anche di altissimo livello (non ancora del tutto disvelate e su cui, nonostante l’impegno di alcuni magistrati coraggiosi da Palermo a Firenze, non c’è ancora totale verità giudiziaria) – le peggiori organizzazioni criminali. Mafie che segnano la storia di questa Repubblica sin dalla fondazione e nei decenni hanno compiuto attentati (sui cui mandanti e interessati l’impegno per fare piena luce non è ancora completato) e hanno assassinato.
Nella settimana che si sta concludendo c’è stato l’anniversario della strage di via Palestro a Milano e di fronte le basiliche romane di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro. Esattamente trent’anni fa, l’anno successivo alle stragi di Capaci e via D’Amelio in cui il progetto eversivo mafioso (e non solo) stava mettendo a rischio la tenuta democratica di questo Paese. Che è riuscito a resistere, a respingere il progetto stragista mafioso ma che lascio una lunga scia di sangue e ferite nella democrazia in cui si sono inseriti progetti, personaggi ed organizzazioni certamente non amanti e curatori della democrazia stessa e di una autentica legalità. Nel 1993 Presidente del Consiglio era Carlo Azeglio Ciampi che raccontò nel 2010 quanto la notte del 27 luglio ebbe il timore che si stesse realizzando un golpe.
«Il mio governo fu contrassegnato dalle bombe. Ricordo come fosse adesso quel 27 luglio, avevo appena terminato una giornata durissima che si era conclusa positivamente con lo sblocco della vertenza degli autotrasportatori. Ero tutto contento, e me ne andavo a Santa Severa per qualche ora di riposo. Arrivai a tarda sera, e a mezzanotte mi informarono della bomba a Milano. Chiamai subito Palazzo Chigi, per parlare con Andrea Manzella che era il mio segretario generale. Mentre parlavamo al telefono, udimmo un boato fortissimo, in diretta: era l'esplosione della bomba di San Giorgio al Velabro. Andrea mi disse "Carlo, non capisco cosa sta succedendo...", ma non fece in tempo a finire, perché cadde la linea. Io richiamai subito, ma non ci fu verso: le comunicazioni erano misteriosamente interrotte. Non esito a dirlo, oggi: ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi».
(Intervista di Carlo Azeglio Ciampi a Repubblica, 29 maggio 2010)
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i magistrati simbolo di quella stagione stragista assassinati l’anno prima, erano tra i protagonisti in prima linea del pool antimafia – diretto da Antonino Caponnetto – che dal maxi processo in poi ottenne importantissimi successi contro Cosa Nostra. L’intuizione di quel pool fu di Rocco Chinnici. Assassinato dalle mafie il 29 giugno 1983, dieci prima le stragi sul continente e la “notte della repubblica”. Chinnici era entrato in magistratura nel 1952, primo incarico al tribunale di Trapani. Approdò a Palermo, come giudice istruttore, il 9 aprile 1966. Il pool antimafia, ideato per rompere l’isolamento dei magistrati che stavano indagando contro le mafie, nacque dopo gli attentati in cui furono uccisi il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile (4 maggio 1980) e il giudice Gaetano Costa (6 agosto). «Un mio orgoglio particolare è una dichiarazione degli americani secondo cui l'Ufficio Istruzione di Palermo è un centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre magistrature d'Italia. I magistrati dell'Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo e battagliero» dichiarò Chinnici. Erano anni in cui Palermo viveva un clima di guerra e clan di mafia si combattevano sparando ed uccidendo alla luce del sole. In quegli anni Chinnici ebbe anche un’intensa attività culturale e partecipò come relatore a molti convegni e congressi ed intervenendo nelle scuole. Convinto dell’importanza dei giovani nell’essere alternativa alle mafie e costruire un migliore avvenire. «Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai» dichiarò in un’occasione.
«Sono i giovani che dovranno prendere domani in pugno le sorti della società, ed è quindi giusto che abbiano le idee chiare. Quando io parlo ai giovani della necessità di lottare la droga, praticamente indico uno dei mezzi più potenti per combattere la mafia. In questo tempo storico infatti il mercato della droga costituisce senza dubbio lo strumento di potere e guadagno più importante. Nella sola Palermo c'è un fatturato di droga di almeno quattrocento milioni al giorno, a Roma e Milano addirittura di tre o quattro miliardi. Siamo in presenza di una immane ricchezza criminale che è rivolta soprattutto contro i giovani, contro la vita, la coscienza, la salute dei giovani. Il rifiuto della droga costituisce l'arma più potente dei giovani contro la mafia».
(Intervista rilasciata a I Siciliani di Pippo Fava)
Rocco Chinnici fu assassinato con un’autobomba alle 8 del mattino del 29 luglio 1983 insieme a due carabinieri della sua scorta, il maresciallo Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta. Unico superstite, gravemente ferito, l’autista Giovanni Paparcuri. Il telecomando fu azionato da Antonino Madonia, il fratello Giuseppe fu responsabile dell’attentato contro il capitano Emanuele Basile e fu arrestato a Longare nel vicentino il 6 settembre 1992, operazione coordinata dall’allora capo della squadra mobile locale Piernicola Silvis.
fonte foto it.gariwo.net