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Abitiamo tutti “LA CITTÀ DI ADAMO”

Intervista a Giorgio Nisini autore di "La città di Adamo" candidato alla 65ma edizione Premio Strega

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Giorgio Nisini classe 1974, laurea in lettere alla Sapienza di Roma, ha pubblicato il suo primo romanzo “La demolizione del Mammut”  nel 2008 vincendo il Premio Corrado Alvaro Opera Prima. Il suo secondo e atteso lavoro è arrivato nel 2011 “La città di Adamo” edito da Fazi e ha ottenuto un meritato e notevole successo tanto da rientrare nelle opere candidate al 65esimo Premio Strega. Adesso sta lavorando ad un nuovo romanzo che uscirà il prossimo gennaio ma parleremo con lui della Citta di Adamo, l’opera  candidata prestigioso premio nazionale. Nella trama del libro, un uomo  Marcello Vinciguerra, titolare di un’industria alimentare dopo aver visto un documentario in tv inizia a sospettare che suo padre abbia avuto rapporti con la camorra per far decollare la sua attività. Da lì iniziano i dubbi, i tormenti, la perdita di riferimenti  che lo portano a mettere in discussione tutta la sua vita fino a quel momento. La sola ipotesi è un terremoto esistenziale, quando però dalle sue indagini questa collusione tra il padre e la criminalità diventano quasi una certezza si mette il cuore in pace, anzi sembra quasi accettare e capire il padre.


Perché accade questo? Perché ha capito che ogni uomo ha le sue debolezze? Perché il fine giustifica i mezzi? Lei non teme  che questo finale in qualche modo sottovaluti la piaga che è la connivenza devastante tra industria e criminalità nel nostro paese?
No, fa esattamente il contrario, mette a nudo come il più delle volte il singolo imprenditore sottovaluti il compromesso a cui è costretto a cedere. Insomma, non è il finale che sottovaluta la piaga, ma è Marcello. Il finale conclude la parabola di un uomo che passa da uno stato d'incoscienza sulla propria condizione di privilegi, a uno stato di coscienza critica, durante la quale mette in discussione tutto, il padre, la madre, il rapporto coniugale, i collaboratori dell'azienda. L'approdo è uno stato di coscienza "cinica", un compromesso, appunto. Qualsiasi altro finale sarebbe stato didascalico o consolatorio, e a me non interessa né una letteratura didascalica né consolatoria.


Perché si dice che il suo romanzo sia un punto di partenza per un realismo metafisico italiano?
Ecco, nei miei romanzi, a partire da La demolizione del Mammut, ho sempre messo in scena personaggi molto pragmatici e razionali - un architetto, un imprenditore - che però a un certo punto s'imbattono in qualcosa che scardina la loro visione del mondo, qualcosa di confuso, di sgranato, di non perfettamente decodificabile. La piattaforma "realistica" scivola verso un orizzonte più oscuro, metafisico appunto, anche nella misura in cui li spinge a interrogarsi sul senso dell'esistenza e su Dio. In questo senso non trovo sbagliata la definizione di realismo metafisico utilizzata da alcuni critici. Come ogni categoria estetica è necessario definirla per poterne valutare un'effettiva applicabilità. Il realismo metafisico - e non la metafisica pura, che richiama invece la tradizione figurativa che ha avuto in De Chirico il suo principale rappresentante - rimanda a una tradizione poetica molto lunga, secondo alcuni già riscontrabile nei manieristi e nei barocchi, e che arriva fino a Eliot e Montale. Proprio Montale ne ha dato la definizione secondo me più calzante: "Tutta l’arte che non rinunzia alla ragione, ma nasce dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione".

La città di Adamo tocca temi estremamente importanti il rapporto genitori figli, presente e passato, l’etica professionale, il consumismo elitario, l’incomunicabilità della coppia, la fede. Ma quale era però il messaggio finale che lei voleva far prevalere sugli altri? Il tema che maggiormente le sta a cuore?

Non credo nella letteratura come portatrice di messaggi, piuttosto nella letteratura come strumento di messa a fuoco del mondo. Italo Calvino diceva che il modo in cui la letteratura ci fa vedere le cose è unico; ecco, il mio tentativo è quello di far vedere le cose attraverso un punto di vista diverso, un filtro, come quando si guarda un oggetto su uno spettro cromatico differente o da un'altra angolazione. E' un modo per scoprire cose che altrimenti non si vedrebbero. Poi, certo, ci sono alcuni aspetti che si preferisce mettere sotto la lente rispetto ad altri, in questo mio libro il tema del dubbio e della conoscenza, ma senz'altro anche i temi da lei indicati.

In un sua intervista lei ha detto che i suoi maestri sono stati scrittori che hanno fatto dell’impegno sociale la loro bandiera come Vittorini e Pasolini , mentre a lei interessa seguire un’altra strada , quale è questo suo sentiero?

La mia generazione si è formata sui grandi autori del Novecento, tra cui i due citati, autori che hanno interpretato la letteratura come strumento di engagement. Per me sono stati autori importantissimi, anche se personalmente intendo l'impegno dell'intellettuale in maniera molto diversa. Non m'interessa scrivere per denunciare o per fare battaglie civili, quanto scrivere per interrogare la realtà. La letteratura è per me soprattutto uno strumento conoscitivo e interrogativo, oltreché un meccanismo narrativo. In una frase: inseguo una letteratura filosofica piuttosto che una letteratura civile.


Dal finale sembra che l’input del romanzo sia sommerso dall’amore ritrovato per la moglie, proprietaria di un lussuoso negozio di design e nella scena finale riappare nuovamente il divano firmato sul quale la consorte del protagonista amava avere rapporti sessuali, stavolta invece di essere nel suo show room è in un giardino. Secondo lei la coppia ha debellato il suo attaccamento oggettuale, oppure ha solo cambiato scenario? Ha veramente ritrovato una dimensione umana?

La scena finale è il paradigma di un compromesso coniugale, che a sua volta è il paradigma del compromesso esistenziale di Marcello. Lui non ama fare l'amore sui mobili di design e tanto meno ama farlo nel negozio della moglie: portare il divano boa in giardino rappresenta il punto d'incontro tra loro due, Ludovica accetta di ritrovare un intimità domestica e Marcello cede al suo feticismo compulsivo. E' chiaro che c'è anche un gioco di simbolismi biblici su cui ho voluto ironizzare.

Il suo romanzo era candidato alla 65esima edizione del Premio Strega che non ha vinto. E’ stata una delusione per lei? Come ha vissuto questo riconoscimento e la mancata vittoria?

Sapevo di non avere i numeri per vincere, per cui il risultato me lo aspettavo. In ogni caso è stata un'esperienza importante. E poi essere entrato nei dodici finalisti ed aver avuto l'appoggio incondizionato dell'editore è stata di per sé una vittoria.

 

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