La mafia?
È un fenomeno internazionale, ormai, globale. Questo dice la percezione comune: difficile distinguerne i confini. Inevitabilmente, l’estensione del concetto porta a defocalizzarlo. Lo conferma un sondaggio che si trova incluso nell’ultimo rapporto pubblicato da Libera. Stando ai dati raccolti dall’associazione di don Luigi Ciotti, solo l’8,2% degli italiani giurerebbe che la mafia in questo momento non riguarda solo il sud. Il che dimostra che la coscienza del problema nel nostro paese non è certo andata di pari passo con la sua evoluzione reale: basti pensare che il 52% della popolazione la bolla come “marginale” . E poi c’è un 62% convinto che la mafia non sia più un “fenomeno preoccupante”: ma questo dato, in un certo senso, può anche considerarsi una fotografia incontestabile.
Nei fatti è una realtà ineccepibile che, in questa fase, da stragista e sanguinaria, senza clamori la mafia si è fatta imprenditrice nelle grandi aree industriali del Settentrione, e “opera con passo felpato, senza destare allarme”, osserva don Ciotti. . “Ma ha inquinato molti ambiti della vita pubblica.”
L’inquinamento, ecco la parola chiave. In effetti, se gli italiani non appaiono troppo focalizzati, di certo non sono del tutto intorpiditi. Pur mostrandosi tendenzialmente negazionisti circa la pericolosità attuale della mafia, non mancano però di notare come il livello di corruzione sia aumentato. Eppure l’aumento della corruzione non è altro che la conseguenza di una criminalità organizzata che non si oppone più troppo apertamente allo stato, ma preferisce insinuarsi nei suoi meccanismi. “La corruzione è adesso il metodo prevalente delle mafie”, sintetizza efficacemente il fondatore di Libera. Il 70% degli interpellati ammette che le tangenti sono ancora molto o abbastanza diffuse, e il 30% (che diventa il 40 nelle sole regioni del Sud) dichiara di aver avuto a che fare in prima persona con esse.
Si scorgono chiaramente gli effetti, insomma, un po’ meno le cause. La colpa, sembra suggerire Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia intervenuto alla presentazione del rapporto di Libera, è anche della politica, che non parla più della necessità di “contrastare le mafie e la corruzione”. Anzi, aggiunge il magistrato, tende a “posporre questi problemi”, e a non prestare sufficiente attenzione a tali “fenomeni emergenziali”. Oppure ad affrontarli in modo troppo incerto: Ciotti critica, a esempio, il fatto che il decreto sicurezza del governo Conte preveda la vendita dei beni mafiosi confiscati, ma non la possibilità che i proventi vengano investiti per finanziare progetti sociali. E appare ancora poco chiaro dove finiranno quei beni che, rimasti invenduti, dopo un triennio passeranno al demanio.
E se la politica ha la sua parte di colpa, non può chiamarsi fuori neppure l’informazione. La verità è che gli italiani vorrebbero sapere di più e meglio, ma un’offerta informativa fin troppo dispersiva e qualitativamente diseguale di certo non aiuta. C’è voglia di tornare alle fonti più autorevoli, agli strumenti più tradizionali: ecco perché, dicono sempre i dati statistici evidenziati da Libera, il 20% degli intervistati gradirebbe accostarsi all’argomento con le grandi inchieste su carta stampata. Perdono terreno la tv, forse perché considerata in un certo qual modo contigua ad Internet (solo il 18% degli italiani le concede credibilità), e, naturalmente, il web e i social network, vero focolaio delle fake news degli ultimi anni (Facebook e consimili sono un canale di informazione fededegno solo per il 4,2% del campione interpellato, mentre Internet nel complesso gode la fiducia del 6,4%).
Quale la ricetta per un racconto dei fatti che restituisca alla mafia il giusto livello di attenzione? Don Ciotti suggerisce “meno colore e più rigore”.