Due milioni?
“Soltanto” un milione? A malapena qualche migliaio? Qualunque sia il conto esatto delle presenze umane al Circo Massimo di Roma, sabato 30 gennaio, quella del Family Day è stata una festa allegra e colorata, almeno quanto l’evento in favore delle famiglie arcobaleno; ed è innegabile che a rispondere all’appello degli organizzatori è stata una fetta significativa di italiani preoccupati dalle conseguenze spinte del mercato delle nascite e della vita.
Perché la battaglia di Gandolfini, Adinolfi e degli altri che si sono succeduti sul palco della manifestazione in effetti non è rivolta contro le coppie omosessuali in sé: nessun cristiano, in fondo, si opporrebbe davvero al fatto che due persone dello stesso sesso vogliano vivere sotto lo stesso tetto, nei limiti del diritto comune e senza pretendere di costituire una famiglia. Il timore, in prospettiva, è che aprire alla definizione di famiglia per una coppia formata da due persone di sesso uguale possa costituire un precedente perché una qualsiasi altra "aggregazione" su base affettiva (formata anche da più di due persone) ambisca ad essere considerata tale. Questione ancor più problematica, in realtà, è quella delle adozioni da parte di queste coppie, anche nei modi previsti dalla legge italiana (quindi qualora un bambino sia rimasto orfano): e questo proprio perché l'atto stesso dell'adozione implica già per esse un riconoscimento di tipo familiare. Anche in questo caso il timore più grande si pone in prospettiva ed è che - nelle mani di un certo tipo di legislazione - quelle coppie e il principio della stepchild adoption (cioè la possibilità che il figlio avuto in precedenza da uno dei membri della coppia venga adottato dal suo compagno) possano diventare il cavallo di Troia per rendere normale anche in Italia una pratica già ricorrente in altri Paesi del mondo, ma sempre molto controversa dal punto di vista etico e anche da quello dei diritti umani: desiderare un figlio, e quindi commissionarlo ad una donna che, in realtà, dietro compenso presta soltanto il suo utero e il suo ventre per lo sviluppo biologico di un seme o di un ovulo fecondato in vitro, donazioni di uno dei due membri della coppia o piuttosto provienienti da banche del seme e degli ovuli.
Ė quella che si chiama surrogazione di maternità (o “utero in affitto”): sappiamo bene, naturalmente, che, nel mondo, a questo tipo di fecondazione non ricorrono solo le coppie omosessuali, ma anche molte tradizionali che non abbiano potuto avere figli. Però, nei fatti, costituisce in ogni caso una mortificazione della dignità femminile da un lato, dall’altro un attentato all’identità del nascituro, che è già prodotto di una donazione e non ha il diritto di riconoscere come madre la donna che, tecnicamente, lo ha tenuto in grembo e concepito. E che dunque viene messo al mondo in quanto motherless. Ma i nemici dell’utero in affitto volgono il loro sguardo anche al di là: e cioè al fatto che, in teoria, con un ambiente legislativo permissivo, i committenti possano non accontentarsi di ciò che le banche dei semi e degli ovuli passano già, ma vogliano anche fare in modo che quel materiale biologico abbia le particolari caratteristiche che desiderano. E cioè spalancare le porte all’ingegneria genetica più spinta, e ad una selezione di geni disumana e incontrollabile. Che però crea profitto.
Dunque, il vero obiettivo del Family Day, nella lunga distanza e al di là della cosiddetta propaganda militante, non è l’amore omosessuale o la sua pretesa di diventare una realtà socialmente riconosciuta, ma il fatto che le coppie omosessuali, innocentemente e con le migliori intenzioni, potrebbero diventare i clienti più ambiti per un’industria della genetica che non si fa scrupoli di accontentare le velleità paterne/materne di persone che, evidentemente, non possono desiderare figli a loro immagine, ma a immagine del loro ideale. Bisogna ammettere che, in base a questo principio, così come si dovrebbe negare l’accesso all’utero in affitto alle coppie gay, lo si dovrebbe fare in ugual modo anche a quelle tradizionali; ma è chiaro che, quante più saranno le coppie gay, tanto più esponenzialmente aumenteranno le richieste in questo tipo di mercato. Lo ribadiamo: non c'è una connessione immediata tra ddl Cirinnà e utero in affitto. Ciò contro cui si combatte non è la coppia omo in sé e per sé, quanto la possibilità che essa abbia un potere tale da rivendicare il diritto di avere figli ad ogni costo, anche nei modi che la legge italiana considera ancora non convenzionali. E violando il sacrosanto diritto di un bambino ad avere due genitori di sesso opposto, cioè in definitiva una mamma e un papà.
A questo punto è doverosa una riflessione: in fondo anche in un Paese come gli Usa dove la pratica dell'utero in affitto è routine, alla fine concretizzare o meno l'atto da cui la pratica parte (ad esempio la donazione del seme) dipende pur sempre dalla coscienza del singolo. Non vorremmo banalizzare, ma ce lo insegnano telefilm come Willy il principe di Bel Air o Due uomini e mezzo. Dunque, anche la legislazione più consolidata, su questo tema, non pone al riparo da preoccupazione etiche. E se c'entra la coscienza, la questione diventa ancora più complicata quando ad occuparsene è un operatore senza scrupoli.
In sostanza il messaggio più autentico del Family Day è tutto rivolto ai figli (più che ai padri e alle madri, in fondo): la maternità e i frutti della maternità non sono diritti da esigere a tutti i costi, ma doni che derivano da un rapporto d’amore naturale tra un uomo e una donna. Un rapporto, per il quale il matrimonio tradizionale è stato istituito dall’inizio della civiltà umana.
Senza contare che, disgregando il concetto della famiglia nel senso più autentico, si punta a rendere l’individuo più solo, e quindi più debole nei suoi diritti. Vivere il Family Day a fianco di una delle componenti che più hanno contribuito a realizzarlo, le Sentinelle in piedi, non può non significare apprezzarne il significato più serio. E viverlo ai margini, in uno dei tanti fazzoletti di spazio per pic-nic del Massimo, molto lontano dal centro e dalla passerella dei vip (e di Casapound), significa godere la normalità dei suoi partecipanti.
Partiti in pullman da Cosenza alle 6.00 del mattino di sabato, il cronista e la sua comitiva sono arrivati alle Terme di Caracalla un po’ dopo le 12.00. Da lì hanno proseguito a piedi fino al Circo Massimo, confluendo nell’interminabile processione di gruppi e famiglie che si muovevano intorno al lato est del Circo (quello transennato e che non è possibile riempire, perché vi sono scavi archeologici in corso).
Dopo le “delegazioni” di Forlì e di Castelfranco Veneto, arrivava finalmente anche per noi il momento di “scendere in campo”, e poi di risalire i declivi erbosi che nell’antichità, magari, ospitavano gli spettatori delle corse. Guadagnata la nostra postazione, era scoccato il momento di desinare, mentre davanti al palco continuavano a scorrere i video introduttivi dell’evento. Bisogna dire che il gruppo di cui chi racconta faceva parte ha sfoderato i panini e le bottigliette quando già le altre comitive intorno lo avevano fatto da un po’, e ha raccolto i rifiuti precedendole di parecchio: in pratica, noi ci accingevamo a seguire, già sazi, l’apertura dei lavori, mentre quel clan di milanesi gaudenti e imperturbabili, dopo i panini al salame e i mandarini aulentissimi con semi, si era concesso una scatola completa (!) di cioccolatini assortiti, e allorché iniziava il primo intervento, ancora ne piluccava con gusto.
Ma non ci si poteva soffermare per troppi istanti su un particolare umano o materiale: il tuo sguardo era obbligato a spaziare, e a constatare come il flusso continuasse ininterrotto all’ingresso, e come sempre più folto e colorito si facesse il pubblico intorno a noi, davanti a noi, sotto di noi, e soprattutto al centro del Circo Massimo, dove sin dall’inizio risplendevano gli stendardi dei Neocatecumenali. Ecco gli abruzzesi, ecco i campani, ecco gli amici di Foggia con tanto di bandiera del Foggia calcio (attualmente secondo in Lega Pro); ecco le inesorabili truppe e timorate di Subiaco. Poi il venditore di cappellini ufficiali della manifestazione (“Cinque cappelli a dieci euro”), che misteriosamente finiva con lo scambiarsi baci e abbracci con uno dei partecipanti alla manifestazione. E il venditore abusivo africano, pronto a proporre agili biografie di Nelson Mandela. A un modico prezzo.
E gli interventi, finalmente: Adinolfi, Amato, Miriano, le famiglie che concedono le loro testimonianze, fino all’apoteosi finale di Gandolfini. Il tutto preceduto dal brano “Mamma” (perfettamente in tema), eseguito dal tenore Francesco Grollo. I bambini diventano protagonisti nelle tuonanti parole di Massimo Gandolfini, e lo diventano anche davanti ai nostri occhi. Una delle tante tovaglie stese sull’erba per pasteggiare si trasforma nel supporto per i giochi dei bambini di un’altra delle famiglie intorno a noi. Su di essa ci sono due pupazzi di Spiderman, uno più grande l’altro più piccolo, e una Ninja Turtle (ma esistono ancora?). Sono ancora lì, per terra, quando ci prepariamo a sfollare seguendo l’esempio di altri convenuti, convinti, come loro, che al Circo Massimo meglio di noi avesse fatto solo la CGIL con cinque milioni di presenze accumulate: poi ci avrebbe pensato il solito relativismo della rete a farci perdere un po’ di baldanza. Ma neppure un briciolo di convinzione.