All’età di settantacinque anni domenica 15 febbraio si è spento a Roma, dov’era attivo, il regista teatrale Giuliano Vasilicò. È stato uno dei pionieri in Italia del teatro di sperimentazione, a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70. Un teatro, che non era (e non è) legato al repertorio drammaturgico classico, ma a testi e sceneggiature innovativi: a dir la verità oggi si punta soprattutto alla revisione, allo smontaggio e al rimontaggio rivisitato dei grandi classici del palcoscenico, ma per Vasilicò questo impegno ha costituito solo una parte molto minima della sua produzione e per di più quasi agli inizi di essa, vedi il suo “Amleto” minimalista (solo quattro personaggi) del 1971. Poi, tanto spazio al suo genere preferito: le trasposizioni per il palcoscenico di grandi titoli della letteratura. Si tratta della voce più consistente del catalogo di Vasilicò: si va da “Le 120 giornate di Sodoma” di De Sade a “L’uomo senza qualità” e ”Il compimento dell’amore” di Musil a “Il ritratto di Dorian Gray” di Wilde, fino a “Proust” (riassunto de “La ricerca del tempo perduto”). In anni più recenti il regista si è dedicato in modo particolare ai drammi storici (“La fede del Trecento”) e a quelli filologico-religiosi (“Dal Vangelo secondo Giovanni”, “Santa Caterina da Siena”), nonché al metateatro, il teatro che racconta il teatro.
Proprio con un’opera meta-teatrale il maestro si è congedato per sempre dalle scene: si tratta di “Il regista in scena”, una fiaba in forma drammaturgica che è un tributo al fascino dell’arte teatrale e rappresenta uno dei capitoli della trilogia formata da “Il percorso artistico” e “La ragione e il sentimento”.