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Poesia del Giorno: "Le Finestre" di Stephane Mallarmé

Un malinconico esempio di poesia decadentista

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LE FINESTRE (S. MALLARME')

Stanco del triste ospedale e del fetido incenso
che ascende nel bianco banale delle tendine
al gran crocefisso annoiato della nuda parete,
cauto il moribondo raddrizza la vecchia schiena

e si trascina non tanto a scaldare il marciume,
ma per vedere il sole sopra le pietre,
la barba bianca incollare, la scarna figura
alle finestre che un raggio viene a dorare.

La bocca febbrile e vorace d'azzurro turchino,
(giovane, tale si tese a respirare un tesoro,
virginea pelle, altro tempo!) ora appanna d'un lungo
amaro bacio i cristalli tiepidi d'oro.

Ebbro, egli vive, scordando l'orrenda unzione,
i farmachi, l'ore e il letto inflitto, la tosse;
e quando la sera sanguina in mezzo alle tegole
l'occhio al confine del cielo ricolmo di luce

vede belle dorate galere simili a cigni
dormire in un fiume di porpora e di profumi,
che il fulvo e ricco baleno dei loro profili
cullano in un'indolenza di memorie gremita!

Così, nauseato dell'uomo dal cuore incallito
dentro il benessere avvolto, dove si pascono
le sole sue voglie e insiste a cercare rifiuti
per porgerli alla sua donna che allatta i suoi piccoli,

io fuggo e m'abbranco a tutte le chiuse vetrate
donde alla vita si voltan le spalle, e là, sacro
nel loro vetro lavato da eterne rugiade,
che indora il casto mattino dell'Infinito

mi specchio, e me angelo vedo, e muoio e amo
- e questo vetro sia arte, sia misticismo -
rinascere con il mio sogno come un diadema
al cielo anteriore dove Bellezza fiorisce!

Ma, ahimé! Quaggiù spadroneggia: la nausea del suo
contatto raggiunge talvolta il mio asilo sicuro,
e il vomito impuro della Stupidità
mi forza a turarmi il naso davanti all'azzurro.

Come, o mio Io che conosci tutto l'amaro,
sfondare il cristallo contaminato dal mostro
e con le mie due ali senza piume fuggire
a rischio di precipitare per l'eternità?

(1866; "Le Parnasse contemporain")

La vita di Stephane Mallarmè fu segnata da una serie di lutti in giovane età e da una condizione di disagio costante. Per questo probabilmente non si sentì mai rappresentato dal Positivismo del tempo, che elogiava le nuove scoperte e le grandi imprese. Come si fa ad esaltare il secolo in cui si vive, se quello che la gente comune prova è solo sofferenza?

Probabilmente è proprio questo il cuore della produzione di Mallarmè: un dolore trascinato e rassegnato, che trova riscontro quando, ancora ragazzo, si trovò a leggere "i fiori del male" di Baudelaire. Fu così che trovò ispirazione nel Decadentismo, la languida riposta all'allegria ipocrita del Positivismo.

Come molti altri poeti maledetti, anche Mallarmé prova nostalgia per un'epoca non vissuta; anela un ritorno alla natura e ai temi oziosamente bucolici e parnassiani. Una delle sue opere più importanti, "Il pomeriggio del fauno", riprende un classicismo virgiliesco reso frizzante da contenuti erotici e sensuali.

C'è poi un'altra opera a cui il poeta si dedicò, un'opera che gli tolse il sonno e che ci arriva incompiuta. E' "Erodiade", lirica di difficile comprensione e vaga interpretazione. Il poeta si concentrò così tanto sulla forma e sulla musicalità dei versi da renderlo volutamente vuoto di significato; tutto nell'Erodiade è un sogno, una ricerca ideale onirica e spirituale del bello puro e incontaminato quanto pericoloso, così come la protagonista; principessa moglie di Erode che chiese la decapitazione di Giovanni Battista attraverso il ballo della figlia Salomé.

In tutta questa ispirata confusione, si presenta cruda e malinconica "le finestre". Inizialmente, l'immagine è quanto mai chiara: la poesia sembra raccontarci la storia di un vecchio malato, che per l'ultima volta muove le stanche membra per avvicinarsi alla finestra e godere della vista del panorama.

Il primo verso già proietta il lettore nell'ambiente sterile dell'ospedale, e ci trasmette la noia disperata di chi attende la morte. Steso nel letto, il vecchio malato guarda il soffitto, che "ascendenel bianco banale delle tendine al gran crocefisso". L'immobilismo della scena è spiazzante; il lettore attento si ritrova nella stanza con il malato a spostare lo sguardo dal bianco banale delle tendine al crocefisso che, annoiato egli stesso da tutta quella disperazione, non si prende più la briga di dare conforto ai malati. Volendo dare alla prima strofa una valenza metaforica, il crocifisso potrebbe considerarsi la religione intera, verso cui il poeta ha perso ogni fede.

Ma il vecchio non è ancora morto e, in un ultimo cauto sforzo, si alza dal letto per muoversi verso la finestra. Ed è alla finestra che la poesia si colora.

Un'esplosione emotiva e cromatica si riversa nelle strofe successive. Il sole riscalda le pietre e un raggio dora il fragile corpo del malato. Assetato di tale splendore, il vecchio beve l'azzurro turchino del cielo con la stessa bocca con cui un tempo ha amato e baciato. I colori del mondo esterno infatti non solo riscaldano il corpo dell'infermo, ma ne risvegliano la mente, lo fanno viaggiare a cavallo di ricordi felici e appaganti.

Il vecchio dimentica la morte, i farmaci, gli odori dell'ospedale, la tosse: viene catturato dalla bellezza della vita. Rimane così anche al tramonto, quando "la sera sanguina in mezzo alle tegole". Il paesaggio è idilliaco, come ci si aspetterebbe da un decadentista: 

vede belle dorate galere simili a cigni
dormire in un fiume di porpora e di profumi,
che il fulvo e ricco baleno dei loro profili
cullano in un'indolenza di memorie gremita!

La poesia poi prende un verso inaspettato: la paura della morte e lo scontento verso l'umanità, che vive la vita spinta dai desideri più rozzi ed effimeri, di generazione in generazione (insiste a cercare rifiuti per porgerli alla sua donna che allatta i suoi piccoli).

Ora la poesia è in prima persona: il vecchio e il poeta coincidono. "Io fuggo e m'abbranco a tutte le chiuse vetrate"; Mallarmé rifugge dalla vita reale e ricerca l'onirico ideale, lo stesso che cercò di raggiungere con Erodiade. Cerca un mondo privo di sofferenze dove poter albergare in buoni sentimenti e contentezza: un mondo inesistente. Nelle finestre si specchia e si vede angelo in estasi mistica, procurata dalla bellezza del suo sogno.

Ma l'estasi, così come si è presentata, sparisce: il poeta si ricorda di essere schiavo del Quaggiù, che lo distoglie dal suo asilo sicuro, che lo spinge a turarsi il naso davanti alla bellezza dell'azzurro, rovinando la sua ultima speranza.

L'ultima strofa è una domanda retorica, una preghiera all'Io: 

Come, o mio Io che conosci tutto l'amaro,
sfondare il cristallo contaminato dal mostro
e con le mie due ali senza piume fuggire
a rischio di precipitare per l'eternità?

Arrivato al limite estremo di sopportazione della vita, il poeta paragona la finestra (che è stata specchio e affaccio, portale verso un altro mondo) ad un mostro freddo e insensibile. Si chiede quindi se non vale la pena rischiare la caduta, per poter tentare di fuggire in un mondo migliore.

Da eccezionale poeta Decadentista qual era, Mallarmé riempie questa lirica di simbolismo mistico e occulto: lo specchio come canale verso nuove visioni; il cigno simbolo di purezza; le galere (barche) come traghetti verso una nuova vita.

Singolare anche il passaggio da terza persona a prima. Come in una meta-poesia, il poeta dimentica di star raccontando la storia di un moribondo; abbandona la maschera e la metafora per raccontare la sua disperazione. 

Oggi ricorre l'anniversario della morte di Mallarmé, e lo celebriamo ricordando la sua poetica, facendoci trascinare nel suo mondo onirico ideale e lontano, che gli auguriamo di aver raggiunto dopo aver compiuto l'ultimo salto.

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