Nella sua carriera ce ne sono anche di più lunghi.
Ma per la sua autobiografia Vittorio Feltri, coerente con lo stile degli ultimi anni, sempre più votato ad una burbera, distaccata essenzialità, ha scelto di sfornare un libro dal formato decisamente sostenibile: solo 97 pagine, davvero nulla di nixoniano.
Il Borghese riprende il titolo di una storica testata di destra, diretta brevemente dallo stesso Feltri, ma nel libro, in realtà, non se ne fa cenno. Questo si spiega col fatto che la narrazione è priva di una continuità cronologica, ma procede a macchia di leopardo, per medaglioni. Le memorie feltriane, in effetti, sono una godibile galleria di incontri con alcune delle persone più determinanti della vita del giornalista, professionale e privata. Il modello sembra essere quello di uno dei filoni più fortunati della produzione di Giulio Andreotti, Visti da vicino: se ne fa menzione anche nelle pagine di Feltri, nel capitolo dedicato allo statista democristiano – sì, c’è anche lui tra i profili inclusi nella sua bio-cavalcata edita da Mondadori -, ovviamente non per ammettere parentele letterarie che siamo piuttosto noi ad osservare in questa sede, bensì a proposito di un’altra direzione cruciale del fondatore di Libero, e cioè L’Europeo. Eravamo agli inizi degli anni ’90 e l’allora presidente del Consiglio su quel settimanale curava una rubrica che si intitolava proprio come quella collana di libri.
Nella vita di Feltri Andreotti non è stato solo un collaboratore dell’Europeo (in effetti per quel periodico egli scriveva anche prima che il bergamasco ne assumesse le redini), ma anche e soprattutto un “assistito eccellente”. Dopo che l’onorevole venne incriminato per i presunti rapporti con la mafia, infatti, Feltri sostenne con vigore dalle colonne del Giornale e poi di Libero la sua innocenza, così come molto tempo prima aveva fatto con Tortora, nonostante le diffidenze iniziali.
Anche del caso Tortora, però, non c’è traccia nel Borghese, il che conferma che la narrazione memorialistica proposta dal libro è volutamente lacunosa e discontinua.
Laddove invece l’autore tiene a dare un quadro più completo dei suoi ricordi è nel proprio “romanzo di formazione” da giornalista: su questo fronte non manca nessuno dei suoi maestri, ma è meglio dire esempi (Nino Nutrizio direttore de La notte, Gino Palumbo direttore del Corriere d’informazione, Gaetano Afeltra, elzevirista del Corriere della Sera), o dei grandi colleghi, per i quali c’è rispetto professionale e, naturalmente, anche un ricordo affettuoso, ma mai deferenza. Sia Montanelli che Biagi che Bocca, insomma, sono trattati da pari a pari, e nel giudizio di Feltri la stima per le loro doti di interpreti magistrali dell’ars giornalistica è controbilanciata da osservazioni impietose su fragilità caratteriali e piccole gelosie di mestiere.
Con tutti i suoi difetti e i suoi lati burrascosi l’ammirazione è invece incondizionata per Oriana Fallaci, un vero ciclone nel mondo feltriano, per il resto abbastanza placido. Al netto, naturalmente, delle vicissitudini familiari: Feltri rimase orfano in tenera età, a sei anni, e poi vedovo a 24 anni, e fu costretto ad allevare da solo due figlie gemelle. Fin da piccolissimo si misurò subito con i disagi e le fatiche del lavoro, ma questo, lungi dal traumatizzarlo, lo formò anzi a quell’etica quasi protestantica che sarebbe divenuta una bandiera di tutta la sua esistenza. E non è un caso che le pagine dedicate ai suoi lavori (quelli fatti prima di entrare nella carta stampata) siano forse tra le più vibranti di tutta l’opera.