“Non si tratta di elucubrazioni da esaltati amanti di film western, ma di persone che si immedesimano in chi subisce un sopruso”.
Così scrive Vittorio Feltri su Il giornale, interpretando il sentiment di una buona fetta di italiani – non per forza elettori di destra – che pensano che Francesco Sicignano, pensionato sessantacinquenne di Vaprio d’Adda, centro alle porte di Milano, abbia fatto bene, la notte tra il 19 e il 20 ottobre, a sparare a morte al rapinatore che gli era entrato in casa. Un ventiduenne albanese clandestino, che aveva già collezionato alcune espulsioni per furti e rapine.
Con questo gesto estremo Sicignano, in passato imprenditore locale, ha salvato la sua casa, la sua famiglia e i suoi averi; non è riuscito, però, a scampare alla persecuzione giudiziaria innescata da una legge, quella sulla legittima difesa, che per molti – inclusi, naturalmente, i lettori di Feltri, e i familiari delle vittime di altri furti in casa o sul luogo di lavoro – è imperfetta, e dunque necessita di cambiamenti. Urgenti.
Sicignano, infatti, attualmente è indagato per omicidio volontario. Tornano le ombre e i fantasmi del caso di Graziano Stacchio, il benzinaio di Ponte di Nona (Vicenza) che a febbraio di quest’anno uccise a colpi di pistola un componente di una banda di nomadi per difendere un’amica, commessa in una gioielleria, che era stata già svaligiata a più riprese.Anche Stacchio, come Sicignano, è finito indagato per “eccesso” di legittima difesa.
Quest’ultima, regolamentata dall’articolo 52 del codice penale, prevede che “non sia punibile chi abbia commesso un fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui da un pericolo attuale”. In pratica, perché scatti la legittima difesa, è necessario che la reazione all’offesa sia necessaria, che il pericolo dell’offesa sia attuale (cioè incombente) e che la difesa sia proporzionata all’offesa: questo significa che non si può dare la morte a un aggressore che in realtà non ha intenzione di attentare alla tua vita, ma solo al tuo patrimonio. È proprio questo, per molta parte dell’opinione pubblica, l’aspetto più carente su tale fronte legislativo: il confine tra attentato ai beni e possibile attentato alla vita, nel momento in cui si sia fatta irruzione nella casa o nell’esercizio di un qualunque povero cittadino malcapitato, è sempre molto labile, e, nell’urgenza della minaccia del momento, in molti casi finisce per risolversi con metodi e soluzioni arbitrarie.
“Se anche il mio povero marito avesse avuto una pistola, non avrebbe esitato a sparare e forse oggi sarebbe vivo”, confessa la vedova di Pietro Raccagni, il macellaio di Pontoglio (Brescia) ucciso da una banda di rapinatori albanesi. Già, la fortuna di Sicignano è stata quella di aver avuto una pistola a portata di mano: la sua sfortuna, invece, almeno per il pm milanese che sta indagando sul caso, Antonio Pastore, quella di essersi lasciato prendere dal “grilletto facile” in uno stato emotivo di sicuro non semplice.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, infatti, il padrone di casa non avrebbe aspettato di trovare, a sorpresa, il rapinatore in cucina – come da lui detto e ribadito – per sparagli a morte (un colpo al cuore con un proiettile calibro 38); in realtà ne avrebbe percepito la presenza sin da quando aveva varcato il cancello della sua villetta, e gli avrebbe sparato dall’alto, mentre stava salendo la scalinata d’acciaio che dà accesso ai tre appartamenti e a un ballatoio su cui affaciano delle finestre. Il suo corpo sarebbe dunque rimasto lì, giacente, fino all’arrivo della polizia, contrariamente a quanto afferma lo stesso Sicignano, che dice che sarebbero stati invece i complici, arresisi dopo lo sparo, a trascinarne il cadavere in quel punto.