Era il punto di riferimento per tutti i nostalgici dell’era di Gheddafi: sin dalla caduta del regime paterno, infatti, si era posto come capo della resistenza al CNT, l’organo governativo che ne aveva preso il posto.
Saif al Islam, il secondogenito del defunto ex dittatore libico, martedì 28 luglio è stato condannato alla pena capitale, tramite plotone di esecuzione, perché, nel 2011, ebbe responsabilità dirette nella repressione di alcune proteste pacifiche di piazza. Tali proteste avvennero nel quadro della rivoluzione che, proprio in quell’anno, dopo più di quarant’anni, mise fine al regime della Jamahiriya (socialismo arabo gheddafiano). L’accusa per lui è di genocidio All’epoca dei fatti Saif era ufficialmente portavoce del governo, ma di fatto rappresentava unodei più stretti collaboratori del padre, proprio nel momento in cui parecchi suoi ex fedelissimi cominciavano a prenderne le distanze.
Condivideranno la sua sorte, in base a quanto ha stabilito un tribunale di Tripoli al termine di un processo iniziato nell’aprile del 2014, l’ex capo dell’intelligence di Gheddafi, Abdullah al-Senussi, e il suo ex primo ministro, Baghdadi al-Mahmoudi.
Saif si vede piovere sulla testa la severissima sentenza da contumace: allorché è stata pronunziata, infatti, egli non era nel Palazzo di Giustizia, e non perché fosse a piede libero. Dal novembre 2011 si trova, infatti, ostaggio di un gruppo di ribelli nella regione libica di Zintan: in essi si era imbattuto mentre cercava di fuggire in Niger. A quell’epoca Saif era già gravato da un mandato d’arresto spiccato dalla Corte Penale Internazionale.
I ribelli che lo hanno in mano sono schierati col governo di Tobruk, che può contare sul riconoscimento internazionale, e dunque si oppongono al governo di Tripoli, di cui la sentenza contro il loro prigioniero appare chiaramente un’emanazione. Naturalmente anche i vertici giudiziari dell’esecutivo di Tobruk non riconoscono il verdetto: lo ha dichiarato in modo aperto, poche ore dopo la sua lettura, il ministro della Giustizia, Al Mabruk Qarira.
Ciò non toglie, ovviamente, che anche i ribelli di Zintan e il governo a cui fanno riferimento processerebbero volentieri il figlio del dittatore; ma con le loro modalità, com’è logico. Il caso Saif, insomma, dà l’esatta misura dell’attuale ginepraio che c'è in Libia: di fronte ad un nemico comune ad entrambe le parti in lotta non esiste una visione comune di come condannarlo.