Eurovision Song Contest, trionfa la Svezia

L’Italia e "Il Volo" sono terzi

Gianluca Vivacqua
24/05/2015
Musica e spettacolo
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La Champions League della musica pop-leggera è andata agli svedesi.

L’Italia è terza, e può essere un risultato da apprezzare o su cui recriminare, a seconda che si veda il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Di certo però si spera che la Juventus, a differenza de Il Volo, non si accontenti dell’onore ma badi anche al bottino sostanziale. Andando a scorrere l’albo d’oro dell'Eurovision Song Contest, manifestazione nata nel 1956 e giunta quest’anno alla LX edizione, si scopre che la Svezia è in effetti una blasonata dell’Eurofestival: aveva vinto nel 1974, con i leggendari ABBA, poi ancora nel 1991, con Carola, nel 1999, con Charlotte Nilsson, e infine, prima di ieri sera, anche nel 2012, grazie a Loreen. Con la vittoria di Mans Zelmerlöw e del suo brano, Heroes, gli scandinavi salgono così a quota cinque “microfoni di ghiaccio” vinti.

L’Italia, la patria europea del bel canto che a cavallo tra i due millenni ha snobbato l’euro-kermesse (precisamente dal 1997 al 2010),  può vantare soltanto due titoli in bacheca e neppure troppo recenti: uno lo  ha conquistato Gigliola Cinquetti con Non ho l’età nel 1964, l’altro Toto Cutugno nel 1990 con Insieme:1992. Meno male che nell’Europa del calcio le cose si ribaltano: lì è il nostro Paese a far la parte della Svezia, per così dire, mentre per trovare glorie scandinave bisogna risalire alle imprese del Göteborg degli anni ’80 (e non si trattava neanche di Coppa dei Campioni, bensì di Coppa UEFA, quella che oggi si chiama Europa League). Comunque la Russia, che ha ancor meno trionfi da esibire rispetto a noi, grazie alla voce e all’avvenenza di Polina Gagarina è giunta seconda alle spalle degli svedesi: per l’ex Paese degli zar un’unica affermazione, quella ottenuta nel 2008 con Dima Bilan.  

Com’è nella tradizione dell’Eurovision Song Contest, il Paese che, con il suo rappresentante canoro,  si è aggiudicato l’ultima edizione, ha l’onere di organizzare quella successiva: dunque la cornice del quinto alloro svedese è stata Vienna, dove è toccato all’indimenticabile Conchita Wurst, asburgica vicitrice dell’Eurofestival 2014, passare  a    Zelmerlöw lo scettro di miglior cantante d’Europa. I baldi Ginoble, Boschetto e Barone, da più parti accreditati per il podio alla vigilia, non hanno deluso le attese e si sono presi la loro onesta medaglia.

Il problema è che un agone musicale, come un qualsiasi agone nel campo dell’arte, non è una competizione agonistica, dove si deve contare sulla propria forza (anche se, come in certe competizioni calcistiche, anche qui, per certi meccanismi del regolamento, ci sono le qualificate di diritto, e l’Italia era tra queste): a determinare la vittoria è il giudizio altrui, un giudizio molto espanso (partecipano infatti al voto praticamente tutti gli stati europei), ma che alla fine non ha nulla di diverso da quello di una giuria demoscopica o di qualità in un qualsiasi festival di canzoni. Tecnicamente cambia, magari (com’è nei fatti), il sistema di distribuzione dei punti: dal 1975 ogni Paese con diritto di voto nella kermesse può assegnare un pacchetto di punti alle dieci canzoni (quindi ai dieci Paesi) che preferisce, con un unico divieto insormontabile: non può votare per il proprio Paese.

Ottemperato a ciò, ogni Paese-giudice ha facoltà di costruirsi liberamente la classifica della propria top ten, assegnando dodici punti alla prima, dieci alla seconda, otto alla terza e un punteggio oscillante tra  uno e sette ai rimanenti Paesi. Alla fine, le votazioni di tutti i Paesi si sommano, a determinare la classifica finale. Che, passata da un po’ la mezzanotte del 24 maggio, così recitava: Svezia 365 punti, Russia 303, Italia 292.

A prescindere dal piazzamento (che è comunque il migliore da quando siamo tornati in lizza), al movimento canoro italiano fa bene essere presente all’Eurovision Song Contest. E fa bene in modo particolare al festival di Sanremo, “istituzione” decadente da tempo immemorabile che, da qualche anno, è tornata ad essere quello che è la serie A per la Champions League: cioè un campionato di approdo all’Europa che conta.

Poi, al di là della relativa vicinanza geografica, Vienna non è Berlino, e finché per l’Italia non c’è una Juve a concorrere è lecito gioire anche soltanto per una promessa di trionfo.

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