Il “grammelot in canonichese” è una delle strategie più usate, da anni, per negare l’inesistenza/nullità della abdicazione di papa Benedetto XVI, come abbiamo ampiamente descritto, sia pubblicamente, sia nell’istanza depositata presso il Tribunale vaticano il 6 giugno scorso.
E’ un modo sofistico e strumentale di usare il linguaggio canonico, incomprensibile ai più, per cercare di difendere l’indifendibile, cioè l’elezione mai esistita di antipapa Francesco.
Papa Benedetto e la sede impedita
Caratteristica di questa strategia è il prescindere completamente da evidenze macroscopiche e inspiegabili se non in modo ovvio e documentato con l’autoconsegna di papa Benedetto alla sede impedita, provocata dalla convocazione di un conclave abusivo. Il fatto che papa Ratzinger non abbia mai dato spiegazioni all’annosa querelle, che non abbia mai contraddetto chi scrive o i preti rimastigli fedeli, che abbia continuato a vestire di bianco, a usare lo stesso stemma, a impartire la benedizione apostolica, caratteristiche tipiche di un papa impedito, non conta per gli specialisti del diritto canonico. Così come saltano a piè pari i centinaia di messaggi in restrizione mentale larga con cui il Pontefice ha fatto capire il suo status canonico di impedito.
Tratto tipico è anche il fatto di evitare accuratamente l’originale latino della Declaratio e di partire dalla falsificazione – documentata – delle traduzioni e anche dell’originale, come abbiamo visto ultimamente.
Infine, si vuole spacciare l’”Autorità primaziale del Papa”, grande parolone ad effetto, come se fosse la volontà di un tiranno antico, libero di fare e disfare quello che vuole, come se fosse al di sopra del diritto. Il papa può legiferare come vuole, ma poi, essendo lo Stato del Vaticano uno stato di diritto, anche il monarca è sottoposto alle stesse leggi da lui promanate. E infatti la Universi Dominici Gregis prescrive che se la rinuncia del papa non è a norma del can. 332.2, l’elezione che ne consegue è nulla e invalida. Fine della discussione.
Avremmo desiderato fortemente che queste argomentazioni venissero utilizzate in Tribunale, per la difesa di Francesco, consentendo così un pronto ristabilimento della legalità e l’allontanamento dell’antipapa, ma visto che vengono usate per confondere le menti dalla cricca che vuole tenere lo scandalo sotto al tappeto, insieme al pool di avvocati e canonisti con cui abbiamo realizzato il libello-denuncia per il Tribunale, forniamo in pochi tratti sia il sunto delle argomentazioni dei professori Boni e Ganarin, sia le risposte.
Gli autori: Boni e Ganarin
Gli autori (Boni – Ganarin) affrontano dapprima la tesi sostenuta da Padre Faré alla p. 6 del proprio scritto, secondo la quale «l’atto di rinuncia di Benedetto XVI è “inesistente”» perché mancherebbe «in esso la volontà di abdicare». Secondo Padre Faré, che il Papa non intendesse abdicare lo si desumerebbe dal fatto che egli abbia scelto di pronunciare una semplice dichiarazione (declaratio), nonché di utilizzare la formula “dichiaro di rinunciare” e non invece “io rinuncio”. Inoltre, secondo Faré, a rendere «non solo nullo ma addirittura inesistente» l’atto di rinuncia, sarebbe l’apposizione del differimento dell’entrata in vigore della rinuncia pronunciata l’11 febbraio al giorno 28 dello stesso mese.
1) Secondo Boni-Ganarin: «l’intestazione di un atto […] costituisce un indice che, preso singolarmente, nulla rivela circa il suo contenuto, specialmente e proprio nell’ordinamento canonico, come universalmente risaputo»
1) Risposta. Circa l’intestazione dell’atto: sono argomenti irrilevanti e svianti. Vero è che l’intestazione dell’atto non qualifica giuridicamente il suo contenuto. Vero altresì che costituisce un indice del suo contenuto. L’intestazione conferma infatti, che il suo contenuto è meramente declaratorio, non dispositivo. Quell’intestazione l’ha scelta personalmente il suo estensore, papa Benedetto. L’argomento usato dalla Boni è un mero sofisma.
2) Secondo Boni-Ganarin: inoltre, il diritto non richiede al papa che rinuncia alcuna precisa dichiarazione vincolante (si riferiscono al fatto che abbia scelto di usare l’espressione “dichiaro di rinunciare” invece che “rinuncio” n.d.r.), cosa peraltro impossibile nell’ordinamento canonico, in quanto introdurrebbe «una limitazione della potestà primaziale, risultando perciò contraria al diritto divino positivo». Detto altrimenti: il papa non è vincolato ad usare una formula piuttosto che un’altra.
2) Risposta. Vero che non esiste alcun vincolo di forma, infatti nessuno ha mai contestato che via sia stata una violazione in tal senso; ma il canone 332 §2 impone la manifestazione inequivoca della volontà di rinunciare al munus. Qui non c’è. La “potestà primaziale” non c’entra nulla; bisogna solo seguire le regole sancite dalla Universi Dominici Gregis, all’art. 77. Una mera dichiarazione di intenti non modifica nulla nel mondo del diritto. Non dispone, non obbliga.
La vacanza della sede apostolica
3) Secondo Boni-Ganarin: È sufficiente invece che il papa renda nota la sua intenzione di abdicare, cosa che Benedetto ha fatto nel suo riferimento esplicito «alla vacanza della Sede Apostolica», che dunque «fuga sul punto ogni dubbio».
3) Risposta. La “vacanza della Sede Apostolica” va intesa non in senso giuridico (vacatio in seguito alla rinuncia al Papato) ma in senso empirico “sede vuota”, come da corretta traduzione latina. L’espressione sedes Romae, sede Santi Petri vacet, nel suo primo significato, vuol dire che l’appartamento di Roma e la cattedra di San Pietro sarebbero rimaste fisicamente vuote. Così infatti avvenne con la perdita del ministerium per convocazione di un conclave abusivo e così avvenne con lo spostamento a Castel Gandolfo del papa In ogni modo, in qualunque senso la si voglia intendere, la declaratio resta una mera dichiarazione di intenti cui non è seguito alcun atto dispositivo.
4) Secondo Boni-Ganarin: Per la stessa potestà primaziale, in nessun modo si può «costringere il papa a ratificare la sua decisione, avendo già manifestato inequivocabilmente la sua volontà a tutta la Chiesa e non essendo peraltro tenuto a un adempimento che indebitamente limiterebbe quel potere supremo di cui ha la piena disponibilità».
4) Anche per quanto riguarda il discorso sulla ratifica, l’argomento della Boni costituisce un sofisma. L’Autorità Primaziale non c’entra nulla così come non si vuole costringere nessuno, tantomeno il Papa. La ratifica ha senso in quanto alla mera dichiarazione deve per forza seguire un atto dispositivo che dia efficacia giuridica alla mera medesima. Il nocciolo della questione è che manca la volontà, contenuta in un atto dispositivo.
La questione della rinuncia
5) La questione del differimento dell’entrata in vigore della rinuncia al 28 febbraio. Boni-Ganarin premettono «che appare difficile se non impossibile, stando ai principi della teoria generale del diritto, che la presenza di un elemento accidentale possa di per sé determinare l’inesistenza di un atto giuridico, travolgendone così gli elementi essenziali»
5) Circa il differimento: altro sofisma. Vero che, in linea di principio, l’elemento accidentale (il termine), in quanto tale, non inficia l’esistenza dell’atto. Ma il can. 189 III comma, nell’ipotesi specifica che ci riguarda (la rinuncia all’ufficio ecclesiastico), esplicitamente afferma che per il caso in cui la rinuncia non debba essere accettata da alcuno (come la rinuncia del Papa) essa produce i suoi effetti nel momento in cui viene manifestata la relativa volontà. Quindi i suoi effetti non possono essere differiti. L’apposizione di un termine a quo conferma l’assenza della volontà di rinunciare ed è del tutto coerente col carattere meramente dichiarativo del documento che, in quanto tale, può ammettere elementi accidentali. Si tratta di una mera manifestazione di un’intenzione proiettata nel futuro che necessitava, quindi, di un atto dispositivo vero e proprio che non c’è mai stato.
6) Secondo Boni-Ganarin: più nello specifico, l’idea che la rinuncia di Benedetto XVI sarebbe inesistente per tale differimento non tiene conto «ancora una volta dell’inapplicabilità di alcune disposizioni codiciali agli atti del papa».
6) Quanto poi all’asserita inapplicabilità di norme giuridiche al Papa, (si tenga presente che questo è un argomento usatissimo quanto inefficace), non resta da osservare che la Chiesa, come Istituzione, è uno Stato di diritto e, in quanto tale, è regolato dal diritto positivo. Finché una norma è in vigore essa fa stato. Può essere modificata ma fino a quando ciò non avvenga ha efficacia cogente. Affermare il contrario equivale a lasciare l’efficacia della singola norma all’arbitrio dell’interprete con buona pace del principio della certezza del diritto. Il pontefice dovrebbe essere legibus solutus? Egli è si il supremo Legislatore e può quindi creare, modificare, abrogare norme giuridiche, ma fin quando ciò non accade egli resta assoggettato alle medesime.
La differibilità della rinuncia
7) Secondo Boni-Ganarin: il Papa può legittimamente differire nel tempo l’efficacia di un proprio atto, cosa che peraltro già accade allorché il papa accetta le rinunce dai vescovi diocesani al compimento del 75° anno di età, differendone però l’efficacia al momento della notifica della nomina del nuovo vescovo.
7) L’argomento della differibilità della rinuncia del vescovo 75enne, a sostegno di un asserito potere generalizzato del Papa di differire i propri atti, è semplicemente ridicolo oltre che truffaldino: la Lettera Apostolica “imparare a congedarsi” del 12/02/2018, all’art. 5 testualmente recita: “Una volta presentata la rinuncia, l’ufficio di cui agli articoli 1-3 (Vescovi, i Capi Dicastero della Curia Romana non Cardinali, i Prelati Superiori della Curia Romana e i Vescovi che svolgono altri uffici alle dipendenze della Santa Sede, i Rappresentanti Pontifici n.d.r.) è considerato prorogato fino a quando non sia comunicata all’interessato l’accettazione della rinuncia o la proroga, per un tempo determinato o indeterminato, contrariamente a quanto in termini generali stabiliscono i canoni 189 § 3 CIC e 970 § 1 CCEO”. Si tratta, con tutta evidenza, di una esplicita deroga normativa alla regola generale del can 189 III comma. Deroga prevista per legge. Precisiamo che trattasi di un provvedimento normativo nullo in quanto promulgato dall’antipapa.
8) Nello studio si affronta anche l’arcinota e reiterata obiezione che papa Benedetto avrebbe rinunciato al ministerium, ma non al munus petrino. Si tratta invero di una «distinzione concettuale maldestramente inventata», dal momento che molti canonisti, non ultimo il cardinale Péter Erdő, che pure Faré cita pro domo sua, rilevano che ministerium, munus e officium sono termini spesso usati in sinonimia. Il senso dell’utilizzo del termine “ministerium”, utilizzato da Benedetto XVI, dev’essere – secondo elementari criteri ermeneutici – desunto dal contesto, che è esplicitamente quello di lasciare la sede apostolica vacante, con conseguente convocazione di un conclave. Non ha perciò alcuna consistenza ritenere la rinuncia di Benedetto un atto giuridico nullo, per il fatto che non avrebbe utilizzato il termine munus, o non si sarebbe avvalso di una formulazione simile a quella di papa Celestino V, o ancora ritenerla nulla «per errore sostanziale».
8) Sulla sinonimia tra Munus e ministerium non c’è molto da dire: la sede resta vuota come da rinuncia (subìta) al ministerium, lasciata vuota quindi fisicamente, empiricamente non giuridicamente, situazione del tutto compatibile con la sede impedita. Se fosse vero che munus e ministerium sono sinonimi, non ci sarebbe stato bisogno di falsificare la traduzione tedesca, invertendoli di posto. I primi tre paragrafi dell’enciclica Pastor Bonus, spiegano esattamente la differenza fra i termini. Inoltre, dato banale, se fossero sinonimi, e Benedetto non avesse rinunciato al munus per una questione di “eleganza formale”, avrebbe potuto dire “le mie forze non sono adatte a esercitare il ministerium…. Dichiaro di rinunciare al munus”.
Lui non poteva non conoscere il canone 332.2 perché aveva certamente sovrinteso al nuovo diritto canonico del 1983, aveva sicuramente collaborato alla stesura della Universi Dominici Gregis che modificò il 22 febbraio 2013 con il motu proprio Normas Nonnullas. Inoltre, Benedetto XVI da “emerito” non ha mai chiarito nel senso della sininomia asserita da Boni e Ganarin. Infine, se in rarissimi casi, munus potrebbe significare, parzialmente anche ministerium, non è mai vero il contrario. Non esiste in tutto il diritto canonico l’uso di ministerium come sinonimo di munus petrino, ed è quello l’oggetto della rinuncia del papa che può avvenire solo per una sede impedita cristicamente accettata. L’argomento è realmente un inganno dialettico.
Lo studio sulla rinuncia del Papa
9) Ancora, Padre Faré riporta il parere del cardinale Vincenzo Fagiolo, nel 1994 incaricato da Giovanni Paolo II di effettuare uno studio sulla rinuncia del papa; Fagiolo affermava che il papa non può dimettersi per la sola età. La prof. ssa Boni e il prof. Ganarin fanno però notare che il parere del cardinale – che rimane pur sempre un parere, seppur autorevole – può al massimo riferirsi alla liceità dell’atto della rinuncia e non alla sua validità; il Sommo Pontefice, «al momento della rinuncia, non risponde a nessuno della propria decisione – il principio Prima Sedes a nemine iudicatur (can. 1404 CIC) sprigiona anche in questo campo tutta la sua forza giuridica». Se dunque le motivazioni di Benedetto XVI non furono proporzionate all’atto che stava per compiere, egli ne doveva rispondere – e lo ha già fatto – solo a Dio.
9) Per quanto concerne infine il parere del Cardinale Fagiolo torniamo agli argomenti ut supra svolti al numero 5): il Papa non è legibus solutus. Quando rinuncia deve farlo conformemente alle regole. Il riferimento al can. 1404 è poi del tutto fuori luogo. Nessuno vuole giudicare la Prima Sede, qui si valuta, norme alla mano, la intrinseca efficacia/validità di un asserito atto di rinuncia.
10) Padre Faré ha fatta propria la ricostruzione del giornalista statunitense Jonathan Last, secondo il quale l’elezione del 2013 sarebbe stato frutto di «una campagna pianificata in anticipo da quattro cardinali radicali» del cosiddetto “gruppo di San Gallo”. Questa pianificazione renderebbe nulla l’elezione, in quanto in conflitto con il n. 76 della Universi Dominici Gregis (UDG), Costituzione apostolica che regola appunto il conclave. Ma il paragrafo invocato non rientra, secondo l’interpretazione canonistica, tra le prescrizioni irritanti, ossia tra quelle prescrizioni che, se non osservate, renderebbero nulla l’elezione. Oltre al fatto che né è dimostrata la famosa manovra dei quattro cardinali né si è in grado di sapere quanto essa avrebbe effettivamente inciso sul conclave.
10) No, è l’art. 79 che disciplina gli accordi e le conventicole, non il 76. Non è dato sapere il motivo per il quale l’art. 79 resterebbe svincolato dalla sanzione prevista del precedente art. 76 (nullità e invalidità del Conclave). Ad ogni buon conto, se così fosse, tornerebbe applicabile, come da noi sostenuto, il dispositivo del canone 188, con riferimento al c.d. “timore incusso” che colpisce con la nullità l’atto giuridico che ne fosse affetto.
La nullità del Conclave
11) Boni-Ganarin: Risulta «giuridicamente infondata» la tesi di una nullità del conclave in quanto avviato con anticipo e in assenza di due cardinali elettori, in quanto il n. 38 UDG «obbliga tutti i cardinali elettori a ottemperare all’annuncio di convocazione salvo non siano trattenuti da infermità o altro impedimento portato alla conoscenza dell’intero collegio dei cardinali»; fattispecie nella quale rientravano i due cardinali assenti. Anche l’anticipo del conclave risulta conforme al n. 37, modificato proprio da Benedetto XVI. In sintesi, si può affermare che la UDG «è stata perfettamente osservata; e i cardinali, avendo riconosciuto l’impedimento dei porporati assenti, del tutto congruamente hanno fatto ricorso alla potestàdi cui al n. 37 UDG, introdotto verosimilmente da Benedetto XVI proprio per l’ipotesi di vacatio conseguente alla valida rinuncia papale.
11) Risposta: La norma (l’art. 38) riguarda la giustificabilità dell’assenza che nessuno ha mai contestato. L’argomento è irrilevante e fuorviante.
Per quanto concerne l’anticipazione si tratta di un sofisma. L’art. 37 UDG prevede che il termine di 15 giorni possa essere abbreviato solo se presenti fisicamente tutti i cardinali elettori. Non dice che si può anticipare il conclave se gli elettori assenti sono giustificati. Dice: si rispetti il termine di 15 giorni e poi si verificherà la giustificazione degli assenti.
La modifica del primo comma, che ha svincolato la ratio del termine di 15 gg. dall’attesa degli assenti, modifica apportata da B. XVI in Normas Nonnullas, impedisce questa interpretazione estensiva ed elusiva della norma. Tutti rispettino il termine, non solo i Cardinali elettori presenti per attendere gli assenti. Il Collegio Cardinalizio ha considerato, invece, i due assenti giustificati come presenti ed ha ritenuto così rispettata la condizione prevista dall’art. 37 per abbreviare il termine di 15 gg. Non è quello che dice la norma.
Invitiamo i professori Boni e Ganarin a insistere anche loro presso il Tribunale vaticano affinché si possa discutere in un consesso appropriato di tali importanti questioni. Lo faranno? Certamente no. E questo dice tutto.