Ormai è una procedura standardizzata: quando l’ebola fa il suo ingresso in un nuovo Paese, la prima parola spetta alle sue massime autorità sanitarie o politiche, che puntualmente rassicurano: “Bisogna stare tranquilli, il pericolo che il virus attecchisca è basso, bassissimo, praticamente inesistente”. È quello che è successo anche in Scozia martedì 30 dicembre. Ciò che il premier Sturgeon ha detto ai suoi concittadini è precisamente ciò che chiunque altro, nel suo stesso ruolo, avrebbe detto: non c’è nessun rischio di contagio. In effetti, se si considerano i raffronti con le altre “trasferte” fin qui effettuate dall’ebola, si vede che, fuori dall’Africa, il virus è un mostro che si può comodamente mettere in tasca: chiaramente, però, tutt’altro discorso si farebbe se gli ospedali del mondo industrializzato non fossero attrezzati con reparti di isolamento all’avanguardia. Fino ad oggi, in Europa e nel resto del mondo l’ebola si è rivelato un problema limitato a coloro che l’ebola se lo erano portati dietro dal “triangolo della morte”. Dalla Guinea. Dalla Liberia. O dalla Sierra Leone, come nel caso dell’operatrice sanitaria di Glasgow al centro del primo episodio relativo a tale morbo nella terra dei kilt. La donna, che si chiama Pauline Cafferkey e ha trentanove anni, era tornata in patria dall’Africa ventiquattr’ore prima dell’annuncio del suo contagio; aveva rimesso piede a Glasgow dopo aver fatto scalo nell’aeroporto londinese di Heathrow.
Naturalmente, sempre restando in tema di prassi, inutile dire che sono già scattati i controlli presso le compagnie di volo sulle cui linee l’infermiera ha viaggiato per far ritorno a casa.