Washington Post, morto Ben Bradlee

Era stato direttore al tempo del Watergate

Gianluca Vivacqua
26/10/2014
Dal Mondo
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Ci sono stati due americani capaci di diventare grandi a dispetto della poliomielite: uno è il presidente Franklin Delano Roosevelt, l’uomo del New Deal e della vittoria della II guerra mondiale; l’altro è Benjamin Crowninshield Bradlee detto “Ben”, giornalista, a capo del Washington Post per ventisei anni, dal 1968 al 1991. Ma mentre Roosevelt la contrasse a trentanove anni, quand’era già nel pieno della sua carriera politica e, pur usando tutte le sue energie per non farsene piegare, ne fu progressivamente minato, Bradlee divenne poliomielitico quand’era allievo alla scuola episcopale di San Marco, nel Massachusetts. Così, costretto a trascorrere a casa lunghi anni della sua vita di ragazzo e di studente, con ostinazione demostenea Bradlee decise che la sua menomazione non gli avrebbe impedito di tornare sano e di avere una vita piena di soddisfazioni, e soprattutto lunga. Demostene, da balbuziente che era, divenne il principe degli oratori greci, un classico, e con la sua parola veemente e appassionata si oppose fino all’ultimo alle mire espansionistiche di Filippo II che mettevano a repentaglio la libertà della Grecia. Bradlee non solo riuscì a non montare mai su una sedia a rotelle (ciò che, invece, il leonino Roosevelt non aveva potuto evitare), ma fece anche in modo regolare, e con onore, il servizio militare proprio nella guerra di Roosevelt, si sposò felicemente, divenne un guru del giornalismo americano e, prima di spirare, il 21 ottobre, alla veneranda età di novantatre anni, era già da tempo entrato nella storia con le “Filippiche” più adeguate ai suoi tempi: gli articoli sui dossier segreti del Pentagono riguardo alla guerra in Vietnam (Pentagon Papers) e poi la celeberrima inchiesta sullo scandalo Watergate, di una tale forza di provocare un terremoto alla Casa Bianca e le dimissioni del presidente implicato, Richard Nixon, che così scampava all’onta di un probabile impeachment. Era il quadriennio d’oro 1971-1974: boom di vendite per il Washington Post, che continuò ad allargare il suo pubblico negli anni a venire; e consacrazione definitiva per il suo direttore, già cronista al Newswek dal 1953 all’inizio degli anni ‘60, e dal ’65 nella famiglia del Post. Il coraggio e il fiuto che egli ebbe nell’incoraggiare e nel coordinare l’indagine sulle cose non dette della “sporca guerra” e poi quella sul più grande scandalo presidenziale della storia Usa, firmata da Bob Woodward e Carl Bernstein premiarono lui e la sua testata, la cui redazione divenne più larga. Così come la bacheca: se prima di quegli scoop poteva vantare solo quattro premi Pulitzer, dal ’74 in poi se ne aggiudicò quasi a ripetizione, arrivando a toccare quota ventuno. Bradlee abbandonò il suo ruolo di stratega del WP nel settembre 1991, onusto di gloria ma non senza essersi lasciato alle spalle qualche piccolo incidente di percorso (la storia inventata di un bambino eroinomane, a firma Janet Cooke, che nel 1981 fu costretta a restituire il Pulitzer vinto). Una colonna come lui non poteva uscire definitivamente dalla vita del Post, e così egli ne rimase vicepresidente fino alla fine.
Nel 2013 Bradlee ebbe l’onore di ricevere dalle mani di Barack Obama la Medaglia Presidenziale della Libertà. Prima ancora, aveva avuto quello di essere immortalato nel cinema attraverso l’interpretazione di Jason Robards in Tutti gli uomini del presidente (1976; l‘attore vinse l’Oscar).
Nel ricordarlo, Obama ha detto: “È stato un bene pubblico vitale per la nostra democrazia”. Per Wodward e Bernstein, la coppia d’oro del Watergate, se ne è andato “un vero amico e un leader geniale del giornalismo”.

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