I vertici dell'Anci contro la riforma del Senato

Per Fassino nuovo Senato rappresenta poco le realtà comunali

Gianluca Vivacqua
18/07/2014
Attualità
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Com’è noto, la riforma renziana trasformerà il Senato da quel consesso di venerandi padri della Repubblica e decani di partito che è oggi nella massima assemblea interregionale del Paese. Fin qui, sostanzialmente, niente di nuovo rispetto alla proposta del centrodestra bocciata nel 2005: ciò che è veramente epocale è il drastico taglio dei suoi componenti, dai 315 attuali a non più di 100. Di essi, la maggioranza sarà costituita da rappresentanti delle realtà locali (regionali e comunali). Più precisamente si conteranno 74 consiglieri regionali e 21 sindaci; della vecchia guardia, per così dire, resteranno i senatori nominati dal Presidente della Repubblica per altissimi meriti personali e professionali, in numero di 5. In ogni caso non si tratterà di senatori a vita: dopo sette anni dovranno abbandonare il loro scanno, mentre il ricambio del resto dell’assemblea sarà direttamente collegato alle vicende elettorali dei territori da cui gli altri senatori provengono. Non è la fine del bicameralismo italiano, è la fine del bicameralismo duplicato italiano: all’orizzonte si profila una Camera dello Stato (l’assemblea dei deputati) e una Camera dei Territori (l’ex assemblea dei senatori). In effetti, bisognerebbe prendere in considerazione anche l’idea di far sparire del tutto la parola Senato.
Dunque, le realtà locali nel progetto renziano saranno il perno del Senato del futuro: un Senato svincolato dalle vicende del governo, e chiamato invece a tracciare gli indirizzi di riferimento per l’azione politica nei territori. Parteciperà invece al dibattito “di governo” in materia di trattati internazionali e leggi costituzionali. In fondo, però, il fatto che nessun senatore percepirà uno stipendio (anche perché la maggior parte di coloro che vi siederanno hanno già quello da consiglieri o sindaci), accoppiato alla decisione di sfrondarne massicciamente il novero, riconduce anche questa ardita ristrutturazione del Senato al filone delle tante riforme da spending review.
Eppure per Piero Fassino, presidente dell’ultracentenaria Associazione dei Comuni Italiani, 21 sindaci sono troppo pochi per dare una rappresentatività sufficiente a un panorama comunale nazionale ben più ampio (l’Italia è il paese dei 100 e passa capoluoghi, numero lievitato dopo l’istituzione a valanga di nuove province dal 1992 al 2004,  e degli oltre 8000 borghi). Oltre che sul numero, da lui giudicato “inadeguato”, Fassino esprime obiezioni anche sul metodo di scelta dei sindaci: anziché, infatti,  tramite un’elezione “corporativa”, cioè effettuata all’interno del “collegio” dei sindaci, si prevede che i primi cittadini da spedire a Palazzo Madama debbano essere espressi dal voto dei consigli regionali. Ma “la nostra fonte di legittimazione resta quella proveniente dagli amministratori locali, non certo dalle assemblee delle Regioni”, osserva il sindaco di Torino. 

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