Medioriente: nuova escalation di sangue

Non si ferma la barbarie vendicativa isrealiana

Gianluca Vivacqua
13/07/2014
Dal Mondo
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Tutto è cominciato (o meglio ricominciato) il 30 giugno scorso, quando vennero ritrovati senza vita, brutalmente massacrati, i corpi di tre giovani coloni ebrei rapiti da Hamas - come si dice - nel corso di quello stesso mese. Ai funerali, il 2 luglio,  il governo di Gerusalemme promise solennemente che i palestinesi l’avrebbero pagata, e, com’è nella consuetudine della politica ebraica, dalle parole si è passati ai fatti nell’arco di pochissimi giorni. L’8 luglio si è dato inizio all’ennesima stagione di raid aerei dell’esercito con la stella di David sulla Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Hamas ha risposto quasi subito con lanci di razzi su Tel Aviv e altre città israeliane: l’Iron Dome, l'"armatura" antimissile voluta nel 2011 da Netanyau e Obama, fa quello che può ma non garantisce una copertura completa. Soprattutto non annulla il terrore che, come sempre, quando per un qualsiasi motivo si riattizza l’odio con i frontalieri arabi, tiene in sospeso le vite degli abitanti delle città che hanno Gaza per orizzonte. Ad oggi il bilancio di sangue delle incursioni ebraiche parla di 160 morti; sotto le bombe i centri di Zaitun, Sajaya, Jabalya, Khan Yunis e altri vicini, senza discriminazioni tra obiettivi civili e obiettivi militari. Per un capo della polizia di Hamas, Tayseer al Batsch, che proprio oggi viene abbattuto, ci sono centinaia di cittadini palestinesi inermi che hanno già pagato con la vita la sola colpa di popolare quella frontiera cancro del mondo: molti di loro sono bambini, come le tre disabili dell’orfanotrofio di Beit Lahya “punito” dall’aviazione di Netanyau. Oppure sono congiunti di esponenti della nomenklatura da eliminare, come i due nipoti di Ismail Hanieyh, ex capo dell’esecutivo di Hamas, uccisi nel corso di un attacco a Sheikh Radwan.  Hamas controbatte esercitando quella che è la sua specialità, per così dire: la minaccia terroristica. E così con i suoi razzi paralizza il traffico dell’aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv. Come da prassi, appelli di pace sono giunti dal Papa, dall’Ue, dalla Comunità Internazionale; naturalmente anche dagli Stati Uniti, che però, dovendo onorare il ruolo di sostegno storico dello stato giudaico, si preparano nello  stesso tempo ad assistere Israele nell’eventualità di una penetrazione via terra nei territori palestinesi.                  

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