Chi parte e chi resta: guida al discernimento dei migranti

Lo sguardo di chi vive e lavora all'interno del CAS

Valentina Fornaro
20/09/2023
Attualità
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Mentre il mondo guarda sgomento ciò che accade a Lampedusa, qui in Italia la crisi è totale.

E' un problema politico, sociale, culturale. La chiamano l'emergenza migranti. Ed è proprio di una emergenza che si tratta: migliaia di persone arrivate tutte insieme sulle coste, un nemmeno tanto piccolo esercito che ha preso controllo di parti di Lampedusa, un'isola che è stata privata ai suoi stessi abitanti per creare l'hotspot di accoglienza.

Molti di quei migranti che vediamo in televisione, quelli che già si sono dichiarati come non interessati a rimanere in Italia (in barba a Francia e Germania che hanno chiuso le frontiere) sfuggiranno alle maglie della legge. Scapperanno prima di arrivare in un CAS, o subito dopo. Diventeranno fantasmi agli occhi della burocrazia ma non dei cittadini. Si uniranno alla mafia africana e italiana (molti partono già sapendo davanti quale supermercato chiedere l'elemosina) o bighelloneranno nei parchi, senza scopo, senza lavoro, senza identità.

Questi migranti sono il problema politico, sociale e culturale. E' inutile essere ipocriti: non tutti vogliono integrarsi. La maggior parte di quelli che ne hanno l'intenzione seguono il troppo lento e poco edificante percorso legale.

Vengono mandati in un centro d'accoglienza dove aspettano per mesi di ottenere un documento temporaneo per poter lavorare. Sono persone masticate e sputate lontano dal proprio paese, a causa di guerra e persecuzione. Non vogliono causare problemi, vogliono lavorare e una vita dignitosa.

Le prefetture e le cooperative arrancano dietro arrivi massicci e una legge che in definitiva spinge all'abbandono e all'illegalità, perché per rimanere nei centri di accoglienza ci vuole davvero tanta pazienza.

Le storie sono tutte diverse e tragiche, però in comune c'è sempre una famiglia da aiutare, da sostenere. Figli in Africa a cui manca il pane se il papà non lavora. C'è anche il debito del viaggio da pagare, famiglie prese in ostaggio da quelli che prima erano "benefattori disinteressati" poi trasformati in strozzini violenti. 

Il migrante scalpita e il pocket money (2,50 € al giorno) non basta. La disperazione ha la meglio: una valigia con pochi vestiti, qualche amico dalla grande città che gli dice "vieni qui che c'è lavoro" e via, si riparte. Dopotutto è facile ricominciare quando si possiede solo preoccupazione.

Poi ci sono le famiglie con bambini, partite in fretta e furia. Emblematica la storia di K. e S., i giovani genitori di Musa, 1 anno. Liberico lui e guineana lei, con un altro bimbo in arrivo, erano residenti in un CAS abruzzese. Dopo mesi di attesa ricevono la convocazione dalla Questura per la consegna del documento temporaneo.

Arrivati nel comune di riferimento, il funzionario chiede un documento qualsiasi che possa provare l'effettiva genitorialità del bambino. K. e S. non ce l'hanno. Il funzionario umanamente si rifiuta di fargli i documenti: se avesse proceduto, il tribunale dei minori sarebbe intervenuto, levando loro il piccolo Musa. 

Gli viene dato tempo un mese per trovare gli agognati documenti. Partono le chiamate all'ospedale (Musa è nato in Libia) e le lettere al consolato. L'attesa è estenuante, la madre vaga per il campo spaventata, inizia a trascurare se stessa e la casa a lei affidata.

C'è da specificare che Musa è davvero loro figlio. Lo si vede nei lineamenti e in come cerca la madre e il padre. S. mi ripete spesso "facciamo il test del DNA!" ma purtroppo non si può. Siamo di fronte ad un cane che si morde la coda, un loop legale: solo i genitori possono autorizzare al test del DNA, che comporta il prelievo del sangue al bambino. Non potendo dimostrare che K. e S. sono i genitori, il test non si può fare.

E così un giorno, alle prime luci dell'alba, K. S. e Musa vengono visti salire su una macchina e partire. Tutto ciò che avevano è rimasto in casa.

Dove andranno? Cosa faranno? Non si sa. Ciò che si sa è che è stato diramato un ordine di arresto per loro, e che se cercheranno di passare il confine o trovati a camminare per strada, il bambino gli verrà tolto.

Sono tantissime le storie tragiche come queste. La gente che ha davvero la necessità di cambiare, di migliorare la propria condizione, non viene qui con l'intenzione di mettersi nei guai. Eppure anche il sistema ci mette del suo; non viene di certo favorita la legalità. Lo Stato dovrebbe tutelare coloro che decidono di attenersi alla legge, dovrebbe premiarli. 

Gli viene data una casa, cibo e un po' di soldi, ma gli viene tolta la dignità del lavoro. Gli viene detto che devono aspettare, e se per caso vanno ad aiutare qualche agricoltore in campagna, vengono puniti. In Inghilterra, appena un migrante arriva, gli viene chiesto che lavoro faceva nel suo paese, e viene messo in ditta a lavorare. Viene controllato e monitorato, certo, ma gli viene data la dignità di esistere.

Capiamo che l'emergenza è grande e che è difficile stare dietro a tutto. Però il lavoro delle istituzioni è quello di tenere al sicuro i propri cittadini, e nessuno in questo periodo si sente al sicuro, specie nelle grandi città.

D'altra parte, bisognerebbe imparare a discernere. Io vivo e lavoro in un centro di accoglienza, e la sera il melting pot culturale diventa uno spettacolo di colori e risate: persone che davvero vogliono restare, e la cui storia merita di essere raccontata.

E' facile mentre si guarda la fiumana di gente che assedia Lampedusa pensare alla folla come un'unica entità, una mente alverare pronta ad invaderci. E se proprio si ha difficoltà a capire che ogni individuo è diverso, si inizi almeno a dividerli in due gruppi: chi decide di restare nella legalità, e chi invece decide di partire e prendere la via dell'illegalità, del pericolo e del crimine.

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