A che punto siamo con l’Isis?

Tra arretramenti in Medio Oriente e successi di marchio il Califfato festeggia due anni di terrore

Gianluca Vivacqua
06/09/2016
Dal Mondo
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Clamoroso.

L’attentato-spartiacque del 13 novembre 2015 a Parigi fu un fallimento per l’Isis. Chi l’avrebbe detto? Mise in ginocchio il cuore dell’Europa, in quelle idi autunnali, eppure per chi lo organizzò fu quasi un fiasco. Il motivo? Secondo la Cnn l’attentato avrebbe dovuto essere in realtà di più ampio respiro e coinvolgere, quasi in simultanea, anche la Gran Bretagna e l’Olanda. Una campagna d’autunno in grande stile, per un Blitzkrieg jihadista che avrebbe dovuto lasciare solo fiamme e devastazione dietro di sé: ma poi, causa problemi di coordinamento, le intenzioni hanno dovuto cedere il passo alla ben più meschina regola del “qualcosa che è sempre meglio di niente”, e così, quello che a noi, pubblico di potenziali vittime, è sembrato essere l’Apocalisse, per i terroristi non era niente di più che il minimo possibile. Di qui anche la necessità per questi ultimi di rifarsi, riconvertendo la guerra-lampo nella canonica guerra a tappe: e per un’Olanda mancata di poco – di pochissimo – nelle stesse ore in cui Parigi sprofondava nel terrore, ecco un Belgio, nel marzo dell’anno successivo, colpito al cuore. Due metà fanno una mela intera (avvelenata): eppure, ai jihadisti sarebbe piaciuto servirla intera.

L'ISIS E AL-QAEDA. Quisquilie, comunque. Ma, allo stato dei fatti, abbiamo due Isis: un Isis sostanzialmente trionfante in Europa – e così perfezionista da potersi permettere di essere insoddisfatto di sé, e delle sue imprese –, e un Isis calante nelle sue terre d’origine, cioè nell’area siriaco-mesopotamica. Che è poi l’unico vero Isis riconosciuto, quello preso a modello da tutti gli altri affini, partendo dagli estremisti yemeniti per arrivare alle milizie afro-musulmane dell’Africa, fino a Boko Haram. Si parla di Isis, in Europa, ma impropriamente: si dovrebbe semmai parlare di cellule ibride (di matrice un po’ isisina un po’ alqaedana) che agiscono nel nome dello Stato Islamico, ma più da simpatizzanti-fanatici che da rappresentanti autentici, riconosciuti e ufficiali. Un classico, potrebbe commentare qualcuno, niente di nuovo. Si dirà: anche ai tempi in cui l’Isis non era ancora – internazionalmente – entrato in scena e c’era solo al Qaeda più del 50% degli attentati era fatto da mujaheddin improvvisati, tanto più entusiasti di votarsi al martirio sterminatore quanto più dilettanti. Questo è vero, ma c’è una differenza fondamentale tra al Qaeda e Isis: la prima è una multinazionale del terrore vera e propria, e dunque una fabbrica di mujaheddin e di kamikaze; invece il secondo fondamentalmente non è che una milizia (un esercito-stato, se si vuole), che di per sé non fabbrica kamikaze e terroristi, perché di per sé non è un movimento terroristico. Poi, naturalmente, nulla vieta che un terrorista si faccia ispirare, in Europa, dai modi di conquista barbari praticati dall’Isis in Siria e in Iraq, ma in fondo il modo in cui sceglie di farsi esplodere e di portare la guerra dentro la civiltà occidentale mostra sempre una traccia di al Qaeda.

Eh sì: in effetti l’Isis era nato dai resti non normalizzati dell’esercito di Saddam Hussein per dare una mano ad al Qaeda (il movimento rappresentato in Iraq da Al-Zarkawi) contro l’occupazione americana dell’Iraq. L’abbraccio mortale con l’organizzazione di bin Laden portò, com’era inevitabile, ad una massiccia infiltrazione e alla costituzione di un braccio di combattenti da trasferta volontari (e giovanissimi) che dal 2014 hanno contribuito ad esportarne il nome (ma anche a dare una nuova primavera ad al Qaeda). Se, col passare del tempo, l’Isis ha perso la sua identità e ha finito per diventare una nuova stagione alqaedana, è però anche vero che è ancora possibile distinguere le due realtà sulla base degli obiettivi di fondo: nonostante tutto, ad al Qaeda interessa ancora l’intero orbe terracqueo , mentre all’Isis importa pur sempre avere il controllo dell’Iraq ed espanderne i confini annettendo la Siria ed anche una parte del Libano. Tutto qui: l’Isis, quello vero, al netto dei fanatici che lo citano ideologicamente, all’Europa pensa relativamente.

Abu Bakr al-Baghdadi

I FRONTI SIRIANO E IRAKENO. Dunque, l’Isis di lotta, che non è quello del terrore, perde colpi sul terreno. In Iraq, dove, nonostante i timori e le previsioni di fine 2014-inizio 2015, non è mai riuscito veramente a penetrare in modo corposo fuori dalla parte settentrionale del paese e dunque dalla regione della sua roccaforte, Mosul: gli Assiri del III millennio hanno fatto peggio dei loro antenati antichi e al-Baghdadi non può certo fregiarsi del titolo di nuovo Assurbanipal. E soprattutto in Siria, dove, dopo aver perso il controllo di Palmira, a fine agosto è stato costretto a retrocedere  dalla zona di confine con la Turchia: si tratta, è vero,  di alcune postazioni minori ma pur sempre strategiche (Al Qadi ,Tel Mizab, Tell Hamis, Manbij), però le cose non vanno certo meglio nella roccaforte da difendere a tutti i costi, e cioè Aleppo. In questa città si combatte ininterrottamente dal 2012 una vera e propria guerra nella guerra: con l’entrata in campo degli isisini a fianco dei ribelli anti-Assad nell’inverno 2015 si è aperto un nuovo capitolo, culminato nell’autunno di quello stesso anno con la conquista della città.

Tuttavia la fine della storia relativa alla guerra di Aleppo non poteva certo dirsi conclusa lì: anzi, il capitolo decisivo doveva ancora essere scritto, e ciò è avvenuto precisamente quando, dall’inizio del 2016, la Russia di Putin ha cominciato a dare un supporto sempre più significativo al governo di Damasco. L’offensiva congiunta russo-siriana in meno di un anno ha messo con l‘acqua alla gola l’Isis più di quanto fossero rmai iusciti a fare circa due anni di bombardamenti degli americani e dei loro alleati: il che dimostra che un’offensiva sul campo, anche in epoca di drone wars e di tele-guerre, continua ad essere l’opzione maggiormente incisiva. E ora, perse tutte le zone periferiche di Aleppo (con l'aeroporto, la scuola di aeronautica e i depositi logistici), gli al-baghdadiani devono anche guardarsi alle spalle, e cercare di parare l’offensiva di Erdogan il cui nome programmatico non dispiacerebbe agli americani: Euphrates Shield, “Scudo dell’Eufrate”. 

Putin e Assad

 

LA MORTE DI AL-ADNANI.  Stretto nella morsa, intanto, l’inafferrabile Abu Bakr Al-Baghdadi (inafferrabile almeno quanto il suo modello bin Laden) continua a perdere pezzi pregiati del suo entourage: l’ultimo a cadere, proprio sotto le mura di Aleppo, è stato, il 30 agosto, il suo portavoce, Abu Muhammad al-Adnani, che in realtà era più che un semplice portavoce. Infatti era uno dei principali responsabili della comunicazione tecnologica del movimento (in pratica la mente, o una dell mnti, dietro molti dei video che hanno terrorizzato il mondo), ma il suo nome era anche legato ad una celebre video-chiamata alle armi, nel settembre del 2014 (cioè proprio all’inizio dell’espansione dell’Isis), indirizzata a tutti i giovani musulmani d’Europa affinché uscissero dalla loro condizione  di “dormienti” e si dessero da fare per portare la morte e la devastazione nei Paesi nei quali vivevano, nel sacro nome della Jihad. Con Al-Adnani se ne va, in pratica, un fondamentale anello di congiunzione tra la natura militare e lo spirito terrorista dell’Isis

Abu Muhammad al-Adnani

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